Morire al Cairo: libro-inchiesta. Ne parliamo con uno dei due autori
Quando Giulio Regeni viene trovato morto, in una mattina di inizio febbraio, è subito evidente che molti conti non tornano. Dove sta la verità? Chi era Regeni, di che cosa si stava occupando in Egitto? Che rapporto ha la sua uccisione con altre violazioni dei diritti umani perpetrate nel Paese? Antonella Beccaria e Gigi Marcucci hanno condotto un’inchiesta approfondita e rigorosa, scavando in Italia e in Egitto, per cercare di portare chiarezza in questa oscura vicenda.
Associazione per i diritti umani ha rivolto alcune domande ad Antonella Beccaria e la ringrazia molto per le sue risposte.
Da dove è partita la vostra inchiesta e in che modo si è svolta?
L’inchiesta è partita da un’idea dell’editore, Castelvecchi, che voleva fare il punto di quanto emerso dal momento della scomparsa di Giulio Regeni. Confrontandoci, ci siamo trovati d’accordo soprattutto su un punto: al netto di tante informazioni ancora mancanti, un elemento era chiaro, la sua sparizione e il suo omicidio sono frutto dell’intervento di apparati di sicurezza. Per confermarlo, ci siamo concentrati sulla sorte toccata a migliaia di egiziani, scomparsi nel nulla e in alcuni casi ritrovati senza vita. I segni sui corpi, le torture e i depistaggi tornano spesso in troppi casi.
Avete avuto un appoggio dalle autorità italiane e egiziane?
Le autorità italiane hanno risposto alle nostre domande. Con quelle egiziane non c’è stato dialogo. Comunque i nostri interlocutori principali sono stati movimenti per i diritti umani e organizzazioni non governative, in primis la Commissione egiziana per i diritti e le libertà che svolge in ruolo molto importante all’interno del Paese.
Su cosa stava lavorando Giulio Regeni al momento del suo rapimento?
Una ricerca accademica sui sindacati, non solo sui sindacati degli ambulanti, e la stava svolgendo sul campo. Tutto qui. È stato detto che, raccogliendo informazioni, sarebbe stato un agente di servizi segreti italiani o stranieri. Falso. Come hanno dimostrato gli accertamenti della magistratura italiana, non c’è alcun elemento che suffraghi un’affermazione del genere, a iniziare dalle sue disponibilità economiche, molto scarse come accade a molti ricercatori universitari.
Qual è il suo parere riguardo alle spiegazioni e al pantano in cui versa ancora questa vicenda?
È un omicidio di Stato. Va capito perché colpire lui, va capito se è vero che Giulio Regeni fosse stato segnalato da un servizio straniero per incrinare i rapporti commerciali tra l’Italia e l’Egitto, che sono molto consistenti. La procura di Roma sta conducendo un attento lavoro d’indagine su questa vicenda, ma mancano le risposte da parte dell’autorità giudiziaria egiziana. Va detto che il presidente Al Sisi, un dittatore a capo di un regime brutale, non ha subito troppe pressioni dal governo italiano, che è stato molto latitante in termini di risposte chiare sulla vicenda.
Qual è il sentimento attuale dei genitori del ricercatore e come stanno procedendo le indagini?
Le indagini proseguono con le difficoltà di cui sopra. I genitori hanno dimostrato con le interviste e gli appelli infittitisi nella seconda metà del 2016 delusione verso un governo che non ha preteso con ogni mezzo possibile la verità. È una famiglia combattiva e coraggiosa, quella di Giulio Regeni, continuerà a fare ciò che ha fatto dall’inverno dello scorso anno. Ma un fattore è importante: non deve essere lasciata da sola, da parte della società civile deve continuare la mobilitazione. I cittadini devono ricordarsi cos’è successo e pretendere tutta la verità.
Quali sono i diritti umani negati in Egitto?
Non c’è libertà su niente. Ma c’è di peggio. Non solo non è possibile esprimersi liberamente su nulla in Egitto, come in ogni dittatura. Il regime di Al Sisi è pervaso da un profondo senso di paranoia e anche in base a ciò la gente viene prelevata a casa nel cuore della notte, sul posto di lavoro, per strada, nelle metropolitane. E poi, anche se molti leader politici sono stati colpiti, il regime se la prende con il livello medio della contestazione, quella meno visibile, fatta di studenti, sindacalisti, persone politicizzate ma non attivisti di prima linea. Sono persone che hanno modo di parlare con vicini di casa, compagni di studio, colleghi in luoghi normali, al di fuori di raduni, manifestazioni o sedi di partito. Dunque possono confrontarsi sempre, con chiunque, e diffondere con maggiore efficacia idee non gradite alla dittatura. Per questo fanno più paura e per questo in tanti vengono segregati e massacrati in un silenzio roboante.