MARYAM: il pianto senza confini delle donne
di Ivana Trevisani
E’ un pianto di dolore senza confini geografici, religiosi, politici, ideologici, quello delle tre donne musulmane nel pelleginaggio alla Basilica dell’Annunciazione di Nazareth oranti a Maryam, e di Maryam stessa, quello su cui si è aperto il sipario al Teatro Elfo di Milano.
Maryam Maria, la Madonna dei Cristiani, madre, per entrambe le fedi di Issa, Gesù.
Una rappresentazione teatrale intensa, ma anche uno squarcio di conoscenza in profondità di un filo di intreccio tra fede islamica e cristiana, assai preziosa in questi tempi di sterili e rischiose contrapposizioni.
Quattro donne, tre musulmane e la Madonna cristiana messe sulla scena, con straordinaria maestria teatrale da un’unica donna, l’interprete Ermanna Montanari.
La prima ad apparire è Zeinab, la voce intensa gonfia di rabbia per la violenta sparizione/rapimento dell’amica, giovane donna rimasta orfana di padre di cui, per malintesa tradizione familiare Zeinab intuisce e lascia intendere, lo zio fa commercio sessuale. La sua invocazione a Maryam è di vendetta per l’uomo ignobile.
A sostituire i ricami calligrafici e decorativi che contestualizzano Zeinab, sempre proiettate sullo schermo trasparente tra il pubblico e il palco, l’immagine in gigantografia bianco e nero delle rovine di una delle tante città siriane sbriciolate dalla follia di una tragedia che sembra non avere fine e lo snodarsi delle scene-storie-donne, ad accompagnare Il pianto sconsolato dell’affranta Intisar, per il fratello. Il pianto della giovane siriana non solo per la morte del ragazzo, ma anche per l’inganno da lui subito ad opera dei reclutatori fondamentalisti, e per la follia della madre che con il figlio ha perso oltre all’oggetto d’affetto anche l’unico sostegno della famiglia, rimasto loro dopo la morte del padre.
E la palestinese Dhohua, terza donna ad apparire, lamenta Il suo dolore senza pretesa di risposta a Mariam, da madre a madre. Madri entrambe che hanno perso i figli, vittime di legni assassini, uno su quello di una croce e l’altro da quello sfaciato di un barcone in mare, lasciati da padri che non li hanno saputi, voluti salvare.
Ultima ad apparire Maryam, generatrice divina che non può accettare di dispensare vendetta, lei che per prima ha dovuto accettare il sacrificio del figlio e in risposta invocazioni, che sono di fatto più lamentazioni di vicinanza, ricorda alle donne il pianto di tutte le madri, a partire da Eva che pianse su Abele, per arrivare a Dhohua che piange il suo piccolo Alì, tutte per “l’onnipotenza dell’amore che è anche impotenza dell’amore”.
Come annunciato nella presentazione del programma di sala e ricordato dallo stesso autore Luca Doninelli alla tavola rotonda del sabato pomeriggio, il testo nasce dalla folgorazione avuta dall’autore in visita alla Basilica dell’Annunciazione a Nazareth, all’osservazione dell’ininterrotto pellegrinaggio di donne musulmane in preghiera a Maryam, Maria, la Madonna.
Un’ammirazione che molto potrebbe dirci della possibilità di incontro tra fede cristiana e islamica, tanto invocata ma poco praticata e quasi per nulla offerta per conoscenza in Italia.
Quante persone infatti, laiche o praticanti conoscono la presenza potente di Maria nella cultura islamica? Unica donna citata nel Corano, con una Sura che porta il suo nome ed è a lei dedicata. Nella Sura XIX “Maryam” è la donna tramite cui Allah ha voluto dare un segno particolare “In verità o Maryam, Allah ti ha prescelta; ti ha purificata e prescelta tra tutte le donne del mondo”, e il segno è stato Gesù suo figlio, divina creatura, nato per volontà dell’Altissimo.
Assistere all’evento teatrale ha contribuito a consolidare, ancora una volta, la riflessione che sento irrinunciabile.
Più mi apro al mondo e alla sua conoscenza, sempre più credo che una conoscenza profonda di radici che si intrecciano più di quanto si voglia immaginare e ci rendono più vicini di quanto si voglia credere, potrebbe salvarci tutte tutti da derive pseudoidentitarie che tagliano con il bisturi di limitati tradizionalismi strumentali l’umanità, anziché renderla fertile con i semi della saggezza e di un pensiero aperto all’accoglienza del nuovo, anche dentro di sé.