La notte ha la mia voce: le parole della scrittrice Alessandra Sarchi
«Una giovane ha perso l’uso delle gambe in seguito a un incidente. Abita un corpo che non le appartiene più e si sente in esilio dal territorio dei sani», si legge nel risvolto di copertina del romanzo La notte ha la mia voce, edito da Einaudi, di Alessandra Sarchi. La protagonista incontrerà un’altra donna nella sua stessa condizione, Giovanna, e cambierà il suo modo di guardare la vita.
Associazione per i Diritti umani ha rivolto alcune domande all’autrice e la ringrazia molto per la sua disponibilità.
Può raccontarci brevemente la sua storia?
La mia storia, come quella di ognuno, non si riassume brevemente. Certo c’è stato un trauma, un incidente automobilistico al seguito del quale ho riportato una lesione midollare, che ha fatto da spartiacque. Prima camminavo, poi non più. Ma questo è solo uno dei tanti episodi che hanno segnato la rotta della mia esistenza, e nonostante la sua dolorosità non credo che sia stato nemmeno il più importante.
La protagonista del romanzo ripercorre la sua vicenda personale?
No. Non si tratta di un romanzo autobiografico. Certamente non avrei potuto costruire una voce narrante di quel genere se non avessi attinto direttamente alla mia esperienza, ma il romanzo elabora più che dei fatti specifici un vissuto percettivo e conoscitivo.
Un romanzo è un racconto che tratta argomenti universali: uno di questi è la perdita di una parte di sé…
Si perde una parte di sé ogni giorno, vivendo. Il filosofo latino Seneca diceva che la morte è tutta dietro di noi e non davanti, e intendeva che vivendo perdiamo pezzi ad ogni passo, anche se non ce ne accorgiamo. A volte questa perdita è più oggettivata e appariscente come nel caso di chi subisce un trauma, una menomazione o una malattia. Ma anche una perdita psicologica, di un affetto, di una funzione ci mette davanti alla mancanza di cui è costellata la vita. Un equilibrio in continuo movimento fra pieni e vuoti.
Com’è, oggi, il suo rapporto con la disabilità?
È una cosa molto spiacevole che mi è capitata, ma ripeto non ritengo sia la più importante e non voglio farne la ragione della mia vita, anche perché ho molte altre passioni che assorbono le mie energie.
Come è stato il cambiamento anche per la sua famiglia?
Traumatico, ovviamente.
Lo Stato, le istituzioni italiane in che modo dovrebbero occuparsi del tema della disabilità?
Molto è stato fatto a livello legislativo, quello che manca in Italia è una cultura della diversità a trecentosessanta gradi. È solo con una vera educazione alla parità di diritti e di opportunità che possiamo sperare di rendere meno svantaggiati coloro che si trovano in una condizione di disagio fisico o psichico. Ma, ripeto, si tratta di un problema culturale, di educazione e sensibilizzazione che dovrebbe passare nelle famiglie e nelle scuole.
Torniamo al libro: qual è il ruolo della Donnagatto?
La Donnagatto è una figura femminile che vive la propria disabilità come una sfida e come un limite da superare, in maniera provocatoria e sprezzante. Si tratta di un personaggio non solo e non del tutto positivo, ma con ombre e lati oscuri. Di fatto si potrebbe dire che non abbia mai fatto veramente i conti con la sofferenza, ma abbia trovato una maniera molto vitale di rimuoverla, è una figura che rompe con lo stereotipo del disabile vittima o necessariamente in una condizione di minorità.
Quanto è importante la forza psicologica per lei e, credo, per le persone che vivono nella sua stessa condizione?
La forza piscologica è essenziale per chiunque, disabili e non. Si può essere perfettamente sani, dal punto di vista fisico, e ritrovarsi senza motivazioni o progetti. Non le sembra questo l’handicap più grave?