Il suicidio in carcere, in Italia
di Alessio Scandurra
Secondo il dossier “Morire di carcere”, curato da Ristretti Orizzonti e disponibile sul sito della associazione, al 5 maggio 2017 i morti nelle carceri italiane sono stati 37, dei quali 18 per suicidio. L’ultimo è stato registrato il 3 maggio nel carcere di Saluzzo, in Piemonte. Riferisce La Stampa del 4 maggio: “Un detenuto originario di Racconigi, Sasha Z., si è tolto la vita ieri mattina in carcere a Saluzzo. Era stato condannato per furto ed era entrato in cella il 25 gennaio. La sua pena sarebbe dovuta terminare il 24 novembre. (…) Era in isolamento da alcuni giorni, con ogni probabilità per intemperanze e motivi disciplinari.”
Come per tutti i casi di suicidio, si tratta di un atto disperato che trova la propria ragione ultima in elementi personali, non generalizzabili, ed è dunque difficile trarre conclusioni generali da fatti fortunatamente eccezionali come questo. Alcune cose assai semplici è però possibile, e dunque necessario, dirle.
Secondo l’organizzazione mondiale della sanità1 l’Italia, con 5,4 suicidi l’anno ogni 100.000 abitanti, è uno dei paesi con il tasso di suicidio più basso al mondo, il più basso d’Europa dopo la Grecia e Cipro e sicuramento il più basso tra i grandi paesi industrializzati. Ma questo è vero solo per la società libera. Il tasso di suicidio nelle nostre carceri, fatte le dovute proporzioni, è di 81,8, quindici volte quello della popolazione generale. Nelle carceri italiane il tasso di suicidio è dunque al di sopra della media europea, mentre come abbiamo detto quello del resto della popolazione è ampiamente al di sotto.
Come mai? Chi pensa che la spiegazione stia nel fatto che nelle nostre carceri ci stanno molti stranieri, per cui, pur essendo Italia, sono abitate da persone che vengono da altri paesi, si sbaglia. Gli stranieri sono una minoranza nelle nostre carceri (34,1% al 30 aprile 2017), ma soprattutto la maggioranza di costoro viene da paesi come la Tunisia, il Marocco, l’Algeria o l’Albania, in cui il tasso di suicidio è addirittura più basso che da noi.
Ma allora che significa tutto questo? Che nelle nostre carceri si sta peggio che in quelle degli altri paesi? È possibile, ma a mio giudizio non è questo il punto. Anzitutto nella nostra esperienza non è sempre così. In questi anni abbiamo dato vita ad un osservatorio europeo sulle carceri (lo European Prison Observatory) e abbiamo avuto modo di visitare le carceri di molti paesi. La verità è che fare confronti non è facile. In alcuni luoghi il sovraffollamento sarà minore, ma magari le condizioni materiali degli istituti o l’apertura dei regimi detentivi potrebbero essere peggiori. In altri paesi magari le condizioni sono pessime, ma ad esempio c’è più lavoro e più opportunità per uscire dalla propria cella. Se a ciò si aggiunge che, come dicevamo, il suicidio è sempre un atto individuale, che scaturisce dal disagio estremo di una persona, e se si pensa che le persone, dentro come fuori, sono tutti diverse, è facile immaginare che ciò che avrebbe potuto “salvare” qualcuno non avrebbe magari aiutato qualcun altro. La persona disperata e lontana dalla famiglia avrebbe magari trovato sollievo dall’avere un lavoro ed un reddito con cui sostenere i propri cari, e dunque sentirsi vicino a loro. Ma questa risorsa sarebbe stata magari inutile per la persona che aveva invece bisogno di un sostegno psicologico.
E qui si arriva probabilmente al punto. La detenzione è una condizione molto difficile ovunque, per molti aspetti estrema, per ragioni che spesso nemmeno dipendono dalle condizioni materiali di detenzione. La persona appena arrestate è strappata in modo radicale al proprio ambiente, non sa quale sarà il suo avvenire e quello della sua famiglia, che in molti casi da lui dipende. È messo di fronte alle proprie responsabilità per il reato commesso ed alle conseguenze delle proprie scelte di vita. E il tutto accade in un contesto sconosciuto, disagevole e poco rassicurante. A ciò infine si aggiunga che la popolazione detenuta spesso proviene dalle fasce più marginali della popolazione ed anche il disagio mentale è assai più diffuso in carcere che altrove. Che in questo contesto i suicidi siano molti non può sorprendere. Sorprende invece che, da noi, sia così poco il personale specializzato nel prevenirli.
L’Italia è uno dei paesi con più personale in carcere, più che in Spagna, in Francia, in Germania o nel Regno Unito, tutti paesi in cui ci sono più detenuti che da noi2. Ma questo personale da noi è fatto quasi esclusivamente di personale di custodia. Criminologi e psicologi sono da noi lo 0,1%, contro una media europea del 2,2%, mentre il personale medico e paramedico è lo 0,2%, contro il 4,3% della media europea.
Questo significa che da noi l’idea della pena è ancora legata, nei fatti in maniera assolutamente prevalete, alla dimensione custoditale. La situazione è paradossale. Abbiamo una legislazione piuttosto avanzata ed un ordinamento penitenziario fortemente orientato al reinserimento sociale. Abbiamo addirittura una norma nella Costituzione, l’art. 27, che afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. In Italia una pena che non mira al reinserimento sociale è addirittura una pena incostituzionale.
Tutto questo però dovrebbe essere messo in pratica con un personale fatto per il 90,1% da personale di custodia (la media europea è del 68,6%). Questo, nei fatti, significa che paesi con legislazioni meno avanzate e sistemi formalmente meno ambiziosi del nostro di fatto investono nel reinserimento sociale, ed anche nella prevenzione dei suicidi, assai più di quanto facciamo noi.
Da qui bisogna probabilmente partire per spiegare, e possibilmente affrontare, la crisi attuale del nostro sistema penitenziario. È in questi mesi in corso un processo di riforma dell’ordinamento penitenziario avviato l’anno scorso con gli Stati generali dell’esecuzione penale e che dovrebbe trovare esito nei decreti che il governo dovrà emanare su indicazioni della legge delega appena approvata al Senato e in corso di esame alla Camera. Noi ci auguriamo che questa riforma possa rappresentare un importante aggiornamento del nostro sistema, valorizzando i molti spunti innovativi che dai lavori degli Stati generali sono venuti, ma deve essere chiaro a tutti che sarà impossibile innovare facendo riferimento ad una organizzazione e ad una cultura del personale ancora fortemente ancorata al passato.
Le leggi hanno bisogno di gambe su cui camminare, e le gambe sono inevitabilmente quelle degli uomini e delle donne che le devono attuare. Se mancano le gambe, la riforma non cammina. È stato così per la riforma del ’75, che Alessandro Margara chiamava la riforma tradita e, se non si corre ai ripari, sarà così anche questa volta.
1 Fonte: Organizzazione mondiale della sanità. http://apps.who.int/gho/data/node.main.MHSUICIDEASDR?lang=en
2 Council of Europe Annual Penal Statistics, SPACE I – Prison Populations Survey 2015, Aprile 2017.