Venezuela nel baratro, un disastro annunciato
Loris Zanatta (per Ispionline.it, Università di Bologna)
Ogni volta che il regime venezuelano compie un abuso più grave degli altri, i media si scuotono dal torpore: “il Venezuela a un passo dall’abisso”, gridano allora all’unisono. Meglio di niente, specie quando l’abuso è la chiusura del Parlamento, dominato dall’opposizione. Sulle ragioni di tale torpore ci sarebbe da malignare; e verrebbe da interpellare i tanti che per un decennio additarono il chavismo a modello di salvifica reazione al neoliberismo. Sarebbe inutile: dinanzi al disastro, sono già emigrati altrove, a lodare altri modelli da cui fuggiranno un giorno; come già fuggirono, che so, dal sandinismo, che nessuno oggi ricorda, benché regni in Nicaragua con modalità da fare arrossire i suoi fan d’un tempo. Tant’è: inutile rimestare il passato. Qualche punto va però chiarito: nell’abisso, il Venezuela c’è già, la democrazia è già un ricordo, il tracollo economico causa già sfracelli, la violenza sociale e politica è già pane quotidiano. Tanto che è lecito affermare che così come la crisi argentina del 2001 sancì il tramonto del modello neoliberale, quella venezuelana sotterra oggi senza gloria la reazione populista che il chavismo incarnò. Qualcuno cerca foglie di fico: se Chávez fosse ancora vivo, se il petrolio si vendesse ancora a 120 dollari il barile; come se Chávez non fosse responsabile della tragedia, se il crollo dei prezzi petroliferi fosse una sorpresa e non spettasse al governo premunirsi per tempo. La verità è che tutto ciò era prevedibile e previsto. L’approdo cui giunge il chavismo non è diverso da quello cui giunsero tanti populismi del passato: autoritarismo e povertà in nome del pueblo. Come quelli, ciò che lascia è un paese intriso d’odio fratricida, permeato da sfiducia nelle istituzioni, lanciato senza freni lungo una china da cui costerà decenni risalire. In un mondo ipnotizzato dalle parole d’ordine che tanto ama agitare il regime venezuelano – sovranità, popolo, nazione – i suoi frutti avvelenati sono un monito.
La democrazia è un simulacro. La disinvoltura con cui il governo ha ordinato alla Corte Suprema di ritirare la risoluzione con cui aveva esautorato il Parlamento, non deve stupire: la separazione dei poteri non è mai stata un valore, per il chavismo, e l’assalto a ogni istituzione autonoma cominciò ai suoi albori. D’altronde non si considera come un governo uguale agli altri, ma una revolución per redimere il Venezuela dal peccato sociale, insofferente perciò a ogni limite od ostacolo. Della democrazia liberale, il chavismo conservò le forme finché aveva vento in poppa, casse piene e maggioranza elettorale: il voto divenne allora un rituale plebiscitario esercitato con cadenza annuale. Ma da quando il consenso è crollato, il voto dei venezuelani non è più gradito. Raccolto un misero 30% di voti alle legislative del 2015, il regime ha così bloccato il referendum costituzionale chiesto dall’opposizione e poi rinviate a data da destinarsi le elezioni regionali. Spalle al muro, il chavismo compra tempo e non cela più la sua concezione della democrazia, la sua idea di popolo, tipica d’ogni populismo. La spiegò Maduro allorché perse le elezioni: continuerò a governare “insieme al popolo”; non il popolo della democrazia che gli aveva voltato le spalle, ma il suo popolo, il popolo chavista, un popolo mitico, custode dell’identità nazionale e investito del monopolio della legittimità politica. Poco importa che quel popolo sia ormai minoritario: era e rimane per il chavismo l’unico popolo legittimo. A tali parole Maduro ha tenuto fede: il suo regime è oggi un’autocrazia militare, dotata perfino di gruppi paramilitari che seminano terrore.
Ancor più plumbeo è il panorama economico e sociale, devastato dalla scarsezza di beni di prima necessità, dall’inflazione più alta del pianeta, dal drammatico “si salvi chi può”, tomba d’ogni residuo legame sociale: un bel risultato per chi prometteva solidarietà, partecipazione, giustizia sociale. Se il Venezuela è di gran lunga il paese più afflitto dalla recessione in tutta l’America Latina, non è un caso; men che meno lo è se non riesce a produrre la quota di petrolio ottenuta dall’Opec, se è afflitto dai debiti, se i crediti che vanta sono inesigibili perché erogati per attrarre clienti politici, se la spesa pubblica è fuori controllo, se le infrastrutture soffrono la mancanza di manutenzione, se i capitali esteri sono in fuga e la produttività al collasso. Tale è il risultato di un modello dirigista e protezionista, dedito a distribuire la ricchezza che non sa creare e che anzi disincentiva castigando l’iniziativa privata. Che il Venezuela versi in tali condizioni dopo gli anni della più rosea congiuntura economica della sua storia, grida vendetta. Ideologismo, inefficienza, dilettantismo, imprevidenza, corruzione e irresponsabilità: tale è l’eredità che lascia il chavismo. E ora? La strategia del regime è sempre la stessa: comprare tempo. Perfino il grottesco tentativo di tacitare il Parlamento si spiegava così: urgeva impedirgli di opporre il veto alla vendita di taluni attivi dell’impresa petrolifera statale, necessaria per ottenere la liquidità con cui saldare i debiti in scadenza. Qualcuno dovrà un giorno rendere conto di tanta ricchezza sperperata.
Il regime venezuelano galleggia: cerca di prendere tempo per evitare la deriva, ossia la cessazione dei pagamenti, la resa dei conti elettorale, la spaccatura interna, specie delle forze armate, anticamera della guerra civile. Coloro che, come il Papa, forzando la mano dello stesso episcopato venezuelano, sono stati al suo gioco promuovendo un dialogo per il quale non v’erano le condizioni, hanno sia fallito, sia dato al regime il tempo e la credibilità che cercava. Se l’obiettivo è risollevare il Venezuela dal baratro in cui è caduto, e se per farlo urge che ritorni alle urne e alla normalità costituzionale, la comunità internazionale dovrebbe premere in tal senso; come, per fortuna, inizia seriamente a fare.