L’ Islam in carcere. L’esperienza religiosa dei giovani musulmani nelle prigioni italiane
Mohammed Khalid Rhazzali insegna mediazione interculturale e politiche del welfare all’università di Padova; Islam e carcere presso il master in criminologia; immigrazione e carcere presso il master sull’immigrazione dell’università Ca’ Foscari di Venezia. Il Prof. Rhazzali è autore del saggio L’ Islam in carcere. L’esperienza religiosa dei giovani musulmani nelle prigioni italiane, edito da Franco Angeli.
L’indagine contenuta nel volume ha scelto come obiettivo l’esperienza religiosa dei musulmani nelle prigioni italiane. Nel carcere i musulmani sembrano incontrare la replica esasperata del loro essere in quanto immigrati costretti in uno spazio caratterizzato da regole e da logiche estranee alla loro cultura di provenienza e spesso non facilmente mediabili con la spontaneità del loro comportamento. La religione quindi si presenta al musulmano, che vive una condizione di avvilimento, di sconfitta esistenziale e di mortificazione nell’istituzione totale, come una possibilità di ricostituzione di un’autostima, e come accesso ad una ritrovata esperienza d’ordine nell’organizzazione della vita, oltre che ovviamente ma anche problematicamente come affermazione identitaria.
Sappiamo poco delle dinamiche religiose che si attivano nelle nostre carceri, e in particolare tra coloro che professano una fede islamica. La domanda di base, quindi, potrebbe essere: c’è libertà religiosa negli istituti penitenziari? Il Prof. Razzhali, in una intervista, risponde:
«C’è una forte volontà di comprensione da parte dei dirigenti delle carceri – risponde –. Molti di loro garantiscono la preghiera e ne lasciano ai detenuti la gestione, in cambio ottengono ordine all’interno delle celle. Solo che quando succede qualche avvenimento negativo fuori, nella società o nel mondo (attentati terroristici attribuibili ai musulmani), cambiano anche gli equilibri dentro il carcere e si restringe lo spazio. Spesso la preghiera dipende dalle dimensioni fisiche del carcere, se non ci sono luoghi adatti ci si arrangia negli spazi di socialità o durante l’ora d’aria. Poi non dimentichiamo che il carcere è un luogo di passaggio e non definitivo, soprattutto se consideriamo che la maggior parte delle pene è mediamente corta, poiché collegata a reati di microcriminalità».
Per un detenuto, soprattutto di religione islamica, l’impatto del carcere è terribilmente mortificante già dal momento dell’ingresso: ti spogliano degli oggetti e delle abitudini. Per resistere a questa condizione, il detenuto si aggrappa a qualsiasi esperienza personale, gruppo di appartenenza, cultura o subcultura sviluppata e circoscritta all’ambiente di detenzione, cercando di convertirla in risorsa che gli dia forza. La religione si traduce così in una formidabile risorsa cui attingere e questo lo dimostrano non solo i carcerati di religione musulmana, ma anche le persone che si riconoscono in altre religioni. Hanno dato prova di essere dei convinti marocchini, tunisini, italiani (quelli di seconda generazione), balcanici, kurdi, arabi. Quindi dobbiamo sfatare l’immagine e capire ad esempio che le conversioni che avvengono in carcere e che potrebbero generare preoccupazione, sono il sintomo di alcuni tipi di disagio e non l’esito di un comportamento determinato dall’appartenenza a una data religione. Questo non significa che il rischio fondamentalismo in carcere non ci sia, ma a maggior ragione occorre lavorare sul vero problema: un trattamento penitenziario riabilitativo dignitoso. Gli istituti sono lasciati soli, senza risorse, e i problemi rimangono gravi.
Su circa 480 detenuti nelle carceri minorili, ad esempio, vengono costantemente monitorati per evitare che si diffondano messaggi di violenza e vengono attenzionati i più giovani perchè sono quelli più vulnerabili e manipolabili.
I fattori che entrano in gioco nel rapporto, in carcere,, con la religione sono molti: la durata della pena, la gravità del reato commesso, il senso di colpa, la recidività, l’esperienza passata per cui la Fede può diventare anche uno strumento di sostegno psicologico. Ad esempio, durante il Ramadan, la pratica religiosa cresce e la solidarietà tra i musulmani aumenta. Tornando a fare riferimento ai giovani, i ragazzi di nuova generazione, vivono la stessa condizione dei loro coetanei nati in Tunisia o in Marocco. Anche per loro la religione costituisce una risorsa che ha degli effetti terapeutici contro l’avvilimento e la mortificazione. Ma dove questi giovani incontrano chiusura rispondono chiudendosi e strutturando delle identità reattive che trovano terreno fertile in quelle semplificazioni di alcuni discorsi pubblici, superficiali, che spesso orientano anche le politiche. Questo riguarda tutti, non solo i musulmani. Questo fenomeno è stato chiamato dal professore il “burqa identitario”: se continuiamo a ragionare in termini di “tunisino”, “marocchino”, senza pensare ai veri problemi che riguardano il qui e ora, si rafforzano le identità e diventano dei “veli” per tutti. Inoltre i giovani di seconda generazione non danno la sensazione di essere nati o cresciuti in Italia, ma sembrano ereditare lo status sociale dei genitori di lavoratore immigrato, con un destino segnato: operaio, badante, colf, muratore, piastrellista, spacciatore».
Rhazzali, per sviluppare questa sua ricerca, ha fatto parte di una comunità penitenziaria in veste di mediatore culturale, per poi realizzare interviste di un campione selezionato in tre diverse carceri di tre diverse città.
La ricerca indaga la loro autodefinizione in rapporto alla fede, così come il loro vissuto nel rapporto con l’istituzione (i suoi tempi, i suoi spazi, le sue regole) e la relazione con gli altri detenuti e con il personale penitenziario. Nelle carceri italiane – a differenza con altri paesi europei di più antica tradizione immigratoria, dove la religione islamica non è confinata tra gli “stranieri” e neanche tra i detenuti, essendoci personale che la professa – il problema del “diritto di culto” non è ancora risolto compiutamente e si ripropone tanto nelle prescrizioni (alimentari, igieniche, relative alla preghiera ecc.) quanto nell’assistenza spirituale.
Scrive Rhazzali nelle conclusioni del testo:”Esiste evidentemente – anche il carcere in parte lo suggerisce – una via diversa: quella in cui la partecipazione alla vicenda della realtà italiana avvenga senza riserve da parte dei musulmani e senza compressione dei diritti e della dignità da parte della società italiana”. Un lavoro ancora lungo da fare che dovrebbe vedere la partecipazione e l’impegno di giuristi, istituzioni e cittadini.