Trump alla fine decide: U.S.A. fuori dall’Accordo di Parigi
di Alfonso Navarra – Osservatorio per l’attuazione dell’accordo globale di Parigi sul clima
(www.ilsolediparigi.it)
Non era un esito scontato. Dopo averci tenuto sulle spine dal G7 di Taormina, il presidente degli USA Donald Trump alla fine, all’insegna dell'”America first!”, si è deciso ed ha deciso male. Ha ufficializzato, nonostante forti pareri contrari all’interno della sua stessa Amministrazione (la figlia Ivanka, Rex Tillerson…), scavalcando il Congresso, che recederà dall’Accordo di Parigi sul clima globale. (Teniamo presente che gli Stati Uniti non hanno ancora ratificato Kyoto 1992 di cui Parigi 2015 si presenta come uno sviluppo!). Ignora i moniti sempre più allarmanti della comunità scientifica liquidati nei tweet e nei comizi come “bufale inventate dai cinesi” e mette a rischio le speranze dell’Umanità di uscire con (relativamente) poche ammaccature dalla gavissima crisi ambientale che un effetto serra sempre più acuto porta con sé.
(Per dettagli sulla notizia: http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/oltreradio/2017/05/31/clima-trump-ritira-gli-stati-uniti-dallaccordo-di-parigi_02e97b4c-5212-43d8-8b0f-334fcc759970.html)
La decisione, che colloca gli USA sulla stessa posizione recalcitrante di Siria e Nicaragua, va a terremotare un processo diplomatico pluriennale che alla COP 21 di Parigi aveva registrato l’unanimità sul documento finale, ma ancora insufficiente a contenere l’aumento di temperatura entro i limiti indicati dalla comunità scientifica internazionale. (Si stima la capacità di contenimento degli impegni volontari degli Stati a 3,5° C, mentre l’obiettivo sarebbe di 2° C, “preferibilmente” 1,5 per non fare finire sott’acqua interi Stati).
E’ molto importante tenere presente che, ai sensi dell’art. 28 dell’accordo di Parigi (il testo lo si trova, sul sito del Ministero dell’ambuiente, al seguente link in traduzione italiana: http://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/cop21/ACCORDO%20DI%20PARIGI%20Traduzione%20non%20ufficiale.pdf ), per il ritiro effettivo degli USA ci vorranno 4 anni di tempo, quindi – salvo ripensamenti – esso avverrà il 4 novembre 2020, nel pieno della campagna elettorale per la presidenza.
La UE e la Cina hanno subito protestato e proclamato di voler andare avanti comunque senza che il Patto sia toccato: ma resta da vedere quanto pesi la retorica che copre la sostanziale mancanza di una volontà politica condivisa per agire collettivamente, in modo immediato e drastico.
Dal dispaccio ANSA citato possiamo leggere della nota congiunta di Merkel, Macron e Gentiloni: “L’Accordo di Parigi rimane una pietra angolare della cooperazione tra i nostri paesi per affrontare efficacemente e tempestivamente i cambiamenti climatici e per attuare gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda del 2030. Crediamo fermamente che l’accordo di Parigi non possa essere rinegoziato, in quanto strumento vitale per il nostro pianeta, le società e le economie. Siamo convinti che l’attuazione dell’accordo di Parigi offra grandi opportunità economiche per la prosperità e la crescita nei nostri paesi e su scala globale“.
Si è già accennato a Siria e Nicaragua, ma dopo gli USA possiamo temere che altri dei 195 paesi firmatari si tirino indietro. Tra le realtà importanti, dobbiamo puntare i riflettori in particolare sulla tentennante Russia, che potrebbe anche essa ripensarci insieme all’India. Attualmente l’accordo di Parigi è ratificato da 147 Stati tra i quali l’Italia, che ha sfornato di recente, con il governo Gentiloni, una Strategia energetica nazionale (SEN), che – praticamente lo ignora.
Sempre dal citato dispaccio ANSA riportiamo i seguenti dati sulle emissioni di CO2, parametro con cui si valuta l’effetto serra: ” Gli Stati Uniti sono il secondo produttore mondiale di gas serra, con il 15% delle emissioni globali (dati 2015). Il primo produttore è la Cina, con il 29%. Nel 2015 le emissioni cinesi sono calate dello 0,7% e nel 2016 di un altro 0,5%. Nei dieci anni precedenti, la produzione di gas climalteranti del Dragone aumentavano in media del 5% ogni anno. Il calo è dovuto alla chiusura di centrali a carbone e all’apertura di centrali nucleari, rinnovabili e a gas. La Cina, priva di petrolio e avvelenata dal carbone, ha convenienza a puntare su eolico e fotovoltaico e sta investendo in questi settori in modo massiccio. Gli Usa nel 2015 avevano tagliato le emissioni del 2,6% e nel 2016 dell’1,7%, grazie a notevoli investimenti sulle rinnovabili, favoriti dall’amministrazione Obama. Il terzo produttore mondiale di gas serra è l’Unione europea, con il 10%. Negli ultimi vent’anni le sue emissioni sono scese costantemente, grazie al ruolo delle rinnovabili, ma nel 2015 sono salite dell’1,4%. I problemi vengono dall’India, che contribuisce per il 6,3% alle emissioni globali e nel 2015 ha aumentato la sua produzione di gas serra del 5,2%“.
Il problema, per il tycoon diventato presidente, è non comprendere che in gioco c’è molto di più dei lavoratori americani nel settore fossile e carbonifero, c’è la Madre Terra con tutti i suoi abitanti umani e non umani. L’unica strada efficace per rispondere alla sfida sarebbe quella di abbandonare immediatamente, cioé massimo entro 30 anni, i combustibili fossili, tagliare loro i sussidi pubblici, imporre una carbon tax, procedere alla conversione ecologica di produzione e consumi, come auspicato, tra gli altri, da Papa Bergoglio.
Un dato della situazione su cui riflettere è che la gran parte dell’industria americana, comprese le multinazionali energetiche, non intende seguire la logica di Trump. Lo si evince da un appello (evidentemente iascoltato) apparso per diversi giorni sui più importanti giornali americani. Ecco quanto hanno firmato non solo i giganti della Silicon Valley, ma tutti i top manager dell’economia statunitense, inclusi quelli della EXXON (da cui proviene il Segretario di Stato Rex Tillerson). “Stiamo investendo nelle tecnologie innovative che possono aiutarci a conquistare una transizione verso l’energia pulita. E proprio in virtù di questo passaggio, il Governo deve supportarci“.
(Sul Financial Times possiamo leggere – pagando – l’appello sotto il titolo di “Exxon urges Trump to keep US in Paris climate accord” : https://www.ft.com/content/acf309b0-13b3-11e7-80f4-13e067d5072c)
Da “Repubblica on line”, in un pezzo firmato da Raffaella Scudieri”, apprendiamo di defezioni importanti dallo staff di Trump per protesta. Si cita Lloyd Blankfein, il CEO della Goldmnan Sachs, che per l’occasione ha twittato per la prima volta in vita sua: “La decisione di oggi è un ostacolo per l’ambiente e per la posizione della leadership americana“. E il suo dissenso non è poco, visto che in molti si sono sempre riferiti all’amministrazione Trump con l’appellativo “Government Sachs”, dato il numero impressionante di personaggi sbarcati da quella banca alla Casa Bianca.
Fabrizio Tonello riflette su il Manifesto del 2 giugno 2017, nell’articolo intitolato: “Energia, la scelta del tycoon”, su quanto la decisione di Trump di recedere da Parigi possa riflettere una divisione strategica in corso nel “capitalismo USA”, che così prospetta: “La coalizione del «vecchio» (finanza, petrolio, armamenti) o quella del «nuovo» (energie rinnovabili, sharing economy)?”
Il commentatore avanza la seguente ipotesi: “I due modelli possono, in realtà, convivere benissimo: negli otto anni di amministrazione Obama le banche non si sono impoverite, i petrolieri hanno continuato a fare profitti, i mercanti di cannoni hanno esportato più di quanto non facessero con Bush e Clinton. Trump sembra però voler accelerare nel ripristinare il dominio di Wall Street e del Pentagono e difendere gli immensi investimenti dell’industria petrolifera e carbonifera, che rifiutano di essere svalutati da una transizione verso le energie rinnovabili“.
Concludo questo articolo con un riferimento alla COP 23, la Conferenza ONU delle parti che si terrà a Bonn il prossimo novembre (per la precisione, dal 6 al 17 novembre); la quale – riprendendo il filo del lavoro della COP 22 del Marocco, a sua volta proseguimento della COP 21 di Parigi (quella, appunto, dell’accordo) – è intervenuta con il suo presidente, il fijiano Frank Bainimarama, a biasimare Trump e a ricordare che oggi non si può scherzare col fuoco climatico . “Quale presidente della imminente COP23, ribadisco che farò tutto il possibile per continuare a creare una grande coalizione che accelererà lo slancio che non si è interrotto dopo l’accordo di Parigi. La coalizione comprenderà in una sinergia ancor più collaborativa i governi, la società civile, il settore privato e milioni di uomini e donne ordinari di questo mondo. Sono anche convinto che il governo degli Stati Uniti ritornerà alla nostra lotta perché la prova scientifica del cambiamento climatico creato dall’uomo è ben fondata e compresa. Il problema è squadernato e gli impatti sono evidenti: l’umanità non può ignorare questi fatti se non a suo rischio e pericolo“.
(La dichiarazione completa si può leggere in inglese alla URL: https://cop23.com.fj/statement-fijian-prime-minister-incoming-president-cop23/)