A Ciambra. Raccontare la comunità Rom in Calabria con gli occhi di un ragazzino
Ci vuole coraggio per realizzare un film come La Ciambra e il regista, Jonas Carpignano, con la sua troupe, ne ha avuto tanto. E’ andato presso la comunità Rom nella piana di Gioia Tauro, in Calabria, per girare un’opera documentaristica sorretta da una sceneggiatura scarna, ma efficace, all’interno di quel territorio e nella sua quotidianità.
La Calabria è terra arida e generosa, dura e affettuosa quando e con chi vuole; Gioia Tauro è a pochi chilometri da Rosarno, area popolata da varie etnie e infestata dalla ‘ndrangheta.
In questo ambiente si muove Pio, il protagonista. Il fratello maggiore e il padre sono stati arrestati e lui resta con le sorelle e i nonni nella casa fatiscente, a recuperare un po’ di denaro per pagare le bollette attraverso furti di auto e di merci da rivendere al mercato nero o per richiederne un riscatto.
Pio ha quattordici anni: sguardo diretto tradito dagli occhi all’ingiù, espressione strafottente tradita dalla paura per la velocità dei treni, lingua lunga tradita dal bisogno di una carezza.
Nella Ciambra i bambini invece del latte, iniziano a fumare già a tre anni; i ragazzi non sanno leggere; le adolescenti sono madri premature. Uomini e donne si arrabattano per campare, seguendo regole di un’etica antica – quella Rom – che si stanno sgretolando di fronte a un mondo che fagocita tutto e tutti nel vuoto di senso generale. Il nonno di Pio, capostipite di una famiglia numerosa, poco prima di morire ricorda al nipote quando erano nomadi, quando si viveva di artigianato e di musica, quando non si doveva fare la guerra con nessuno. Ma il nonno muore e, con lui, anche le tradizioni e la proposta di una società e di un modo di vivere diversi.
Carpignano (madre afroamericana e padre italiano) torna ai temi a lui cari, già affrontati nel cortometraggio intitolato A Chjana e nel film Mediterranea, calandosi all’interno dell’humus sociale e antropologico senza esprimere giudizi e così facciamo anche noi. Mostra con attenzione, cerca di capire i motivi e le necessità di persone che vivono ai margini, sta addosso ai personaggi, ricordando la lezione del Neorealismo e dei Dardenne. Se c’è un difetto, in questo racconto, è dato dal montaggio e dai tempi un pochino lunghi, ma bisogna anche ammettere che non debba essere stato facile selezionare le scene e le situazioni da proporre al pubblico, quando lo sguardo si pone su un microcosmo così lontano e così vicino al nostro. “Lontano” per la mentalità, dove l’illegalità è normale, dove la galera è la seconda casa, dove i minori vedono il mondo con gli stessi occhi disillusi degli adulti. “Vicino” perchè le donne cucinano per i loro uomini, perchè i ragazzini si innamorano, perchè l’amicizia può nascere (se si vuole) anche tra un quattordicenne Rom e un uomo africano. Tutti, poi, schiacciati dal morso crudele e asfissiante degli “italiani”, quelli che chiedono il pizzo, quelli che minacciano, quelli che conoscono solo il linguaggio della ritorsione e della violenza.
Fotografia scura, con qualche sprazzo di luce, come nella difficoltà del vivere emerge ogni tanto un gesto di affetto; musica moderna e del Passato perchè i Rom e la Calabria sono incastrati a metà tra il bisogno di andare avanti e l’ancoraggio a retaggi culturali lontani, giusti e sbagliati che siano.
A Ciambra è stato presentato all’ultima edizione del Festival di Cannes, co-prodotto da Martin Scorsese: non è un’opera facile, in dialetto con i sottotitoli, ma è uno spaccato importante per aprire gli occhi verso una realtà che facciamo finta di non vedere e non si tratta solo di Rom, ma di un degrado che riguarda molti italiani in molte periferie di questo nostro Paese in cui lo Stato viene troppo spesso a mancare, dove le forze dell’ordine fanno retate e picchiano, dove mancano centri di socializzazione, dove non si combatte la dispersione scolastica, dove cioè si ha paura di inoltrarsi. Complimenti, quindi, a chi invece ha avuto il coraggio di farlo, come dicevamo, e un saluto a Pio, a Iolanda, a Damiano, a Cosimo, a tutta la famiglia Amato, augurando loro di trovare un posto in questo mondo in cui non ci sia bisogno di sopravvivere e di diventare “uomini” di colpo, rinunciando al tempo della crescita e della consapevolezza.