“Stay human: Africa”. Riflessioni dall’Africa nera…
di Veronica Tedeschi
A riapertura della mia rubrica dopo la pausa estiva e dopo un’estate passata in Senegal, non potevo che ricominciare con un articolo sull’Africa nera.
Quell’Africa che alterna paesaggi desertici a paludi sconfinati, dove il caldo e (in qualche caso) anche il freddo si fanno sentire con il loro massimo polmone e dove le città si alternano a villaggi e tribù.
Ritorno con alcune considerazioni e con molti pensieri, come è giusto che sia dopo un viaggio in Africa. Il primo pensiero va ad Ali Mbengu, stella gambiana di lotta senegalese morto nella tratta del Mediterraneo, al quale avevo già dedicato un articolo.
Quest’anno per la prima volta ho assistito ad un allenamento di lotta senegalese, faticoso sport che giace nel cuore di maliani, gambiani e senegalesi. L’allenamento si è svolto all’interno del cortile di una scuola pubblica chiusa per il periodo estivo; la grandezza del cortile e la sabbia, per quanto sporca e disordinata, fanno da corollario perfetto a questo sport. I lottatori, fieri di avere un pubblico di tubab (bianchi il lingua Wolof) hanno mostrato i loro muscoli e le loro mosse, facendoci stancare al solo sguardo.
Tornata a casa il pensiero è andato ad Ali, del quale avevo letto tantissimo e con il quale mi ero emozionata; davanti ai miei occhi avevo Ali, avevo ripercorso tutta la sua vita, la sua fatica, la sua povertà e, infine, la decisione, la pazzia di affrontare il “viaggio”; i lottatori che avevo davanti ai miei occhi avranno avuto lo stesso pensiero? Passare una vita a credere fortemente in qualcosa per poi non riuscire o potere realizzare niente, avrebbe potuto portare questi ragazzi a pensare di poter intraprendere “il viaggio”?
Non so cosa sia giusto sperare ma in cuor mio, memore della storia di Ali, l’anno prossimo vorrei ritrovare gli stessi ragazzi, nella stessa scuola ad allenarsi con la medesima forza e costanza; vorrei che quella sabbia sporca possa renderli comunque felici e appagati.
Gli altri pensieri post-Africa sono dolorosi e derivano da un’inspiegabile vicinanza che sento a questi luoghi. La seconda riflessione di questo articolo-sfogo, riguarda, infatti, l’inaspettato legame tra alcuni africani e la politica. Sarò critica ma non riesco a spiegare il motivo di questo legame, un attaccamento ad una politica che, per quanto ho potuto vedere, non rispetta i voleri dei cittadini e che costruisce strade e ponti solo in prossimità delle spiagge. Una politica che arriva al confine di Dakar e che osa superarlo solo in campagna elettorale quando, anche in periferia, iniziano a comparire manifesti e slogan di candidati.
È apprezzabile che molte persone amino il loro paese al punto che si appassionino alla sua gestione ma nel momento in cui il governo non dà, neanche la politica merita di ricevere e, da quanto constatato, la maggior parte dei governi africani non dà nulla ai suoi cittadini.
Basterebbe organizzare campagne massive contro la malaria in tutta la periferia o, ancora, si potrebbero asfaltare le strade principali, o, ancora più semplice, amministrare nel modo corretto la gestione dei rifiuti. Si potrebbe iniziare parlando con tutti i cittadini per capire se lì, in periferia o nel villaggio, si vive bene. Il tempo di permanenza dei politici in città dovrebbe diminuire a favore dei villaggi, un buon politico deve vivere con i suoi cittadini.
Perché ci si accontenta di essere giudicati dalla città?
La politica occidentale non funziona ma per motivi diversi da quella africana, caratterizzata dalla presenza di “presidenti dinosauri” che non lasciano spazio ai giovani candidati e che, addirittura, modificano la Costituzione per rimanere in carica.
Questa è un’Africa dove la politica non potrà cambiare fino a quando il Governo non decida di pensare al benessere dei cittadini e, di conseguenza, le famiglie governanti decidano di alzarsi dalle poltrone nelle quali, ormai, si è creato un fosso.
Questa è l’Africa che ha fatto morire Ali.
Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri.(Don Lorenzo Milani)