“Orizzonte donna”. City of joy
Dicembre 2017, lunedì: oggi inauguriamo una nuova rubrica. ORIZZONTE DONNA, curata dall’antropologa e psicoterapeuta Ivana Trevisani.
Associazione per i Diritti umani è felice di offrire ai suoi lettori questi prossimi approfondimenti e ringrazia moltissimo Ivana Trevisani per la preziosa collaborazione.
City of joy
di Ivana Trevisani
“City of joy”, il documentario della regista Madeleine Gavin presentato in prima nazionale a Milano al We World Festival lo scorso fine settimana, nella giornata internazionale contro la violenza alle donne, per l’intensità e la potenza del racconto e del messaggio, muove l’augurio e la speranza di poterlo rivedere anche su altri schermi e oltre il 24 novembre.
City of joy, fondato dalla scrittrice statunitense Eve Ensler e dal ginecologo congolese Denis Mukwege Mukengere, già insignito del premio Sacharov per la sua attività di aiuto alle donne vittime di violenza, è il Centro per donne vittime dello stupro come arma di guerra nella Repubblica Democratica del Congo, e più precisamente nel sud del paese, zona ricca di miniere di materiali preziosi, oro, koltan, fosfati… E proprio quell’enorme ricchezza si è rivelata una maledizione per la popolazione dell’area e in un incubo per le donne, divenute l’obbiettivo primario della violenza dei mercenari al soldo delle multinazionali occidentali del settore, nelle strategie di spopolamento dei villaggi adiacenti alle miniere.
Stupro riconosciuto e definito come arma di guerra perchè, oltre agli incendi delle case, è pratica di attacco alle popolazioni per forzarne l’allontanamento, per obbligarle alla fuga dai villaggi e poterli liberamente e impunemente occupare.
Gioia nella violenza? Potrebbe sembrare una contraddizione, di fatto non lo è, perchè la gioia a cui si riferisce la nominazione del Centro è quella del riuscito spostamento dall’angoscia della lacerazione del corpo e dell’anima, alla riapertura alla vita attiva e nuovamente piena di senso del sé e del mondo.
Una gioia che non si colloca nella negazione o nell’inerzia, ma è, al contrario, trasformazione nel passaggio Dal dolore alla forza, come è scritto a caratteri cubitali sul grande striscione al cancello di ingresso al Centro.
Non solo un’idea, ma viva realtà che le donne, con la loro forza affermano e con cui contagiano non solo il loro dottor Denis Mukwege Mukengere, ma anche gli spettatori della sala milanese, invitandoli implicitamente ad andare oltre le lacrime della pietas, pure legittime e spostarsi nel registro dell’ammirazione della potenza vitale di donne che, in un’esistenza assediata dall’aggressione violenta, la vita continuano comunque ad amarla, a volerla continuare e cambiare.
E la straordinaria vitalità delle donne è ben rappresentata dai momenti di felicità ritrovata nello scorrere della quotidianità comunitaria, momenti di divertimento semplice e risate, forse anche reazione al senso di tensione profonda che piano piano, passo dopo passo riesce a stemperarsi. La felicità di quegli attimi che riescono a contrastare la paura, e fanno di brevi istanti un’opportunità per recuperare un po’ della felicità amputata ma non distrutta, è tutta condensata nelle immagini delle donne che riprendono a danzare e mentre ballano gioiosamente, riescono a ridare al medico, con la loro forza di recupero, la forza di continuare ad aiutarle, superando il suo comprensibile momento di sconforto.
Anche il vestirsi bene, nel suggerire e scegliere le stoffe più adatte al proprio corpo è l’inizio del prendersi cura di sé, l’avvio del percorso di accettazione del sé e del riconoscimento del proprio valore.
La consapevole accettazione di sé e il superamento dei ristagni di astio nel profondo, a volte va oltre se stesse: “Odiavo mia figlia dello stupro, ora non più”, un altro passo necessario nel recupero di una piena integrità delle donne, che al Centro si riesce a compiere è riconquistare e riannodare i fili della relazione materna, poiché sempre l’esito inevitabile nell’uso dello stupro come arma di guerra sono l’estirpazione del senso materno e il vuoto interno che ne consegue.
Il perno dell’attività del Centro è la partecipazione collettiva: non essere sole, perchè unicamente la condivisione di uno stesso vissuto e il coraggio di riuscire ad esprimerlo, a metterlo in comune può aiutare ad andarne oltre, a rimuovere l’ingombro di sentimenti negativi ancora stagnanti. Battere insieme le mani alla forza di altre per l’esito positivo raggiunto, si rivela un aiuto propulsivo all’affiorare della propria forza, e al concedersi di manifestarla.
L’avidità delle multinazionali non si ferma alla cancellazione dei villaggi e della dignità delle vite, ma espropria le donne e le loro famiglie e comunità di un bene che la natura aveva loro donato da tempo immemore: la foresta bellisima, fonte di ispirazione poetica e passeggiate di innamorati, è divenuta ora nemica fonte di paura. Ormai dominio degli assassini e stupratori prezzolati è interdetta alla sua gente, un’interdizione a percorrerla, ad accedervi che non tocca solo la sfera emotivo-sentimentale, pure significativa, ma anche quella economica, essenziale alla vita materiale. Le donne infatti da sempre coltivavano la foresta e procuravano il cibo e il sostentamento per l’intera famiglia, spesso anche per la comunità, al tempo stesso, inoltre, si prendevano cura della sua sopravvivenza, messa ora a rischio dall’incuria coatta.
“City of joy”: un racconto corale che alla positività e al desiderio incessante di vita delle donne congolesi, contrappone una quasi enciclopedia delle violenze e dei soprusi di un occidente aggrssivo a “casa loro” ed espulsivo a “casa propria”, che non può e non deve lasciare indifferenti.