Trump sposta l’ambasciata a Gerusalemme, l’annuncio e i fatti
Articolo di Janiki Cingoli, Presidente del CIPMO (Huffington Post).
L’annuncio di Trump, che ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, ha avuto un’eco enorme nel mondo, suscitando reazioni di condanna tra i palestinesi, nel mondo arabo, in Europa e nella più ampia Comunità internazionale, e ovviamente soddisfazione in Israele. L’annuncio in sé è un elemento che modifica, ancora una volta, la tradizionale linea degli Stati Uniti, ora riguardo alla città contesa. Tuttavia, per l’appunto, si tratta di un annuncio, il metodo preferito da Trump, che lascia sostanzialmente inalterati i fatti sul terreno.
Contestualmente al suo discorso, è stata presa la decisione di rinviare di sei mesi il trasferimento dell’Ambasciata Usa a Gerusalemme come è stato fatto da tutti i Presidenti Usa dal ’95 in poi: una scelta destinata a essere rinnovata semestralmente, dato che comunque il trasferimento reale richiederà almeno quattro anni, con la costruzione della nuova sede prevista a Gerusalemme Ovest (un trasferimento quindi che potrebbe quindi essere revocato dal prossimo Presidente degli Stati Uniti, se Trump non sarà riconfermato). Ma soprattutto un rinvio che lascia a disposizione tutto il tempo necessario, per verificare l’accettabilità del nuovo piano di pace tra israeliani, palestinesi e mondo arabo, cui sta lavorando il team negoziale insediato da Trump subito dopo la sua elezione, e diretto da suo genero Jared Kushner.
Molti commentatori hanno riflettuto su quali siano i motivi che hanno spinto il Presidente Usa a prendere questa iniziativa. Secondo il Washington Post, sarebbe stata l’influenza dei circoli evangelici statunitensi, ultra filoisraeliani, e soprattutto quella di alcuni potenti magnati e finanziatori, a cominciare da Sheldon Adelson, il re dei casinò di Las Vegas, che aveva rotto con Trump, proprio per il mancato mantenimento della promessa di trasferire l’Ambasciata.
Altri hanno ricordato il declino della componente più realista del suo cerchio magico, con la ormai prossima sostituzione del Segretario di Stato, Rex Tillerson, ormai caduto in disgrazia, con l’attuale direttore della Cia, Mike Pompeo, anch’egli su posizioni estreme di sostegno a Israele.
Ma il motivo più probabile è stato la ricerca di un diversivo, che attirasse l’attenzione del mondo, e soprattutto dell’opinione pubblica Usa, distogliendola dal cappio sempre più stretto che le investigazioni sul Russiagate stanno stringendo intorno a Trump e alla sua famiglia, in particolare proprio Kushner.
Tuttavia, se si legge bene il testo del suo discorso, si scorgono dei caveat, o meglio dei paletti, che probabilmente gli sono stati suggeriti dai concitati scambi telefonici avuti con i maggiori leader arabi ed europei, oltre che dai suoi collaboratori più impegnati nello sforzo negoziale, e dal Segretario della Difesa James Mattis, consapevole delle conseguenze in termini geostrategici e dei rischi per le truppe Usa nel mondo, che una presa di posizione del genere può comportare.
Non mi riferisco tanto alla reiterazione dell’impegno a facilitare un accordo di pace tra le due parti, e a ricercare un futuro di pace e sicurezza per la Regione; o all’affermazione, avanzata per la prima volta da questo Presidente, che gli Stati Uniti sosterrebbero una soluzione a due stati, condizionata però all’accordo di entrambi i contendenti.
L’elemento più significativo è la sottolineatura che, con questo riconoscimento, gli Usa non stanno prendendo posizione su alcun aspetto riguardante il negoziato sul Final Status, compresi gli specifici confini della sovranità israeliana dentro Gerusalemme, o la risoluzione delle contestazioni sui confini tra le due parti. Tali questioni, si afferma, sono lasciate al negoziato tra le parti coinvolte.
Questo ovviamente, contrasta in pieno con la versione israeliana di “Gerusalemme capitale unica e indivisibile di Israele”. In qualche modo, una mela avvelenata lasciata dentro il pacco dono per Netanyahu.
Di questo, il leader israeliano è certo pienamente consapevole. Ma intanto incassa l’ondata di consenso entusiastico che la dichiarazione di Trump ha suscitato nell’opinione pubblica del suo paese e negli ebrei di tutto il mondo, rivendicandola come un frutto della sua pervicace iniziativa di pressione e di orientamento verso gli Stati Uniti. Anche per lui, è questo l’essenziale, mentre anch’egli, come Trump, è sempre più soffocato dalle maglie dell’inchiesta per corruzione che la polizia israeliana sta conducendo su di lui.
Il momento della verità verrà quando, secondo le anticipazioni dei circoli del team negoziale di Trump, a fine gennaio verrà presentata la proposta Usa per la soluzione del conflitto. Netanyahu sa di aver contratto un grosso debito di riconoscenza verso il Presidente degli Stati Uniti, oltre che per la sua ultima dichiarazione, per l’immediata missione in Israele subito dopo la sua elezione a sorpresa, e la sua emozionale visita al Muro del Pianto (ove tuttavia Trump non volle il Premier israeliano accanto a sé, considerandolo come “luogo conteso” insieme a tutta l’area della Spianata delle Moschee). Il Premier di Israele sa che Trump resta essenzialmente un mercante, e con lui i debiti si pagano.
Resta da vedere quale sarà, in concreto, questa proposta di pace. In questi giorni si rincorrono le anticipazioni, si parla di un’ampia porzione del Sinai egiziano, ai confini con Gaza, che verrebbe ceduta ai palestinesi per costruire il loro Stato, in cambio di una striscia della Cisgiordania, di circa il 12%, ove sono concentrati i maggiori insediamenti israeliani; si parla di una proposta di Capitale palestinese ad Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme Est (riesumando così vecchia proposta di accordo proposta nel 1995 dall’esponente israeliano Yosii Beilin e dall’attuale Presidente Palestinese Mahmoud Abbas, allora respinta dalla destra israeliana). Si parla di un quotidiano scambio di Sms tra Jared Kushner e Mbs, il Principe ereditario saudita Moḥammad bin Salmān, per definire i contorni regionali di tale proposta. Bisognerà vedere se alla fine la proposta potrà essere accettabile per il Presidente palestinese Abbas (e la proposta su Abu Dis capitale difficilmente lo sarebbe). E se Netanyahu potrà reggere senza che il suo Governo vada in frantumi. Un’equazione a molte incognite, che solo nei prossimi mesi potrà trovare la sua soluzione.