“Orizzonte donna”. Alla ricerca di Oum Kulthum
di Ivana Trevisani
Commento al film “Looking for Oum Kulthum” di Shirin Neshat
La solitudine dell’artista ormai famosa nel suo palazzo, forse il prezzo pagato per il successo, si anima nel triangolo che via via si compone: donna matura, giovane donna e ragazzina che scioglie il nodo stretto della storia e la dipana nei ricordi del magnifico bianco e nero in cui Neshat è maestra.
E con mossa perfetta Neshat, alla colorata sontuosità che ci restituisce l’artista ormai all’apice del successo, sostituisce il bianco e nero di un paesaggio rurale lontano nel tempo e luogo d’origine dell’artista, che immediatamente trasporta lo spettatore agli inizi del suo cammino nel canto: una bambina di circa dieci anni, costretta a esibirsi travestita da beduino.
Nonostante Oum Kulthoum avesse dovuto effettivamente sottostare a quell’imposizione, perchè alle donne era vietato cantare in pubblico, l’enorme successo procuratole dalla sua magnifica voce, le consentì in seguito di assumere un intero gruppo di musicisti e di negoziare i suoi contratti, sottraendosi a una tradizione misogina imperante. La sua grandezza artistica travalicò rapidamente i confini egiziani e la sua fama le venne tanto riconosciuta da essere soprannominata Ambasciatrice dell’arte araba.
La bellezza della sua voce, il canto sublime che dispensava, guadagnarono inoltre a Oum Kulthoum, divenuta simbolo della canzone araba, la possibilità di vivere liberamente la propria vita privata, pur segnata da difformità sentimentali: un matrimonio annullato e un altro intorno ai cinquant’anni. La stessa circostanza di non avere figli, condizione riprovevole e marginalizzante per una donna nella cultura islamica, fu tramutata simbolicamente, proclamando Oum Kulthoum Madre di tutto l’Egitto.
Ma fare un film su Oum Kulthum si rivela per la regista un vero cimento, con difficoltà crescente a catturare l’essenza della leggendaria cantante del mondo arabo, in quanto donna, artista, mito; poiché il proposito di Neshat è quello di esplorare le lotte, i sacrifici e il prezzo pagato per il successo, da un’artista donna vissuta in una società conservatrice dominata da uomini.
Un dominio che con l’espediente dell’ostruzionismo dell’attore durante le riprese del film, Neshat vuole segnalarci ancora presente nell’oggi.
Lo schiacciamento della donna da parte del patriarcato sociale è del resto una condizione che Neshat ha dovuto vivere in prima persona, e nello scorrere dell’esistenza dell’artista si inserisce quella della regista; raccontando la vicenda umana di Kulthum, Neshat ripercorre la propria.
Anche la storia di vita della vera regista Shirin Neshat, è stata infatti segnata dalla prevaricazione di stampo maschilista, fotografa e videoartista iraniana, costretta all’esilio dall’avvento in patria del regime khomeinista, rimase forzatamente a New York dove si era trasferita nel 1983 dopo aver conseguendo il Master of Fine Arts alla Berkeley University frequentata dal 1974.
La vera regista, non allusione, ma realtà del film che richiede una precisazione: Neshat nella costruzione del disegno cinematografico utilizza l’escamotage della storia di una giovane regista che decide di fare un film su Oum Kulthum, e questo le consente di sfuggire alla banalità di se stessa che racconta se stessa, perchè probabilmente non questo è l’interesse profondo di Neshat, quanto piuttosto quello di trasmettere un messaggio che pur presente nelle vite delle tre donne, le trascende diventando universale.
Da un passaggio in Iran nel 1990 infatti Neshat, profondamente colpita dalle imposizioni del regime islamico esercitate in particolare nei confronti delle donne, decise che la condizione della donna islamica, il suo rapporto con il mondo maschile e più in generale il rapporto uomo-donna nella cultura islamica e in quella occidentale, sono diventati i nodi centrali della sua ricerca e creazione artistica.
Quindi non a caso inserisce nel racconto filmico delle riprese, con il suo familiare bianco e nero, un’intera sequenza della rivolta femminista al Cairo nel 1914, in cui le donne scesero nelle strade per chiedere diritti politici, libertà di istruzione e di scelta lavorativa.
La polemica capziosa e apertamente maschilista dell’attore e i suoi reiterati attacchi alla regista sono volti non solo a mantenere propria e non abdicarla a “una donna” il possesso del Mito, ma al tempo stesso a ridurre e chiudere al solo ambito popolare la grandezza di Oum Kulthoum che, effettivamente si esibì per i lavoratori dei cantieri sperduti nel deserto, per contadini, operai, costruttori e soldati, ma cantò anche per re e capi di stato e accompagnò le celebrazioni di eventi storici fondamentali.
L’inserimento dell’attore vacuo è un riconoscimento di Neshat alla universalità di Oum Kalthoum, poiché, come unanimamente testimoniato e riconosciuto da chi l’ha vissuta direttamente o ne ha raccolto i racconti, anche dopo il 1975, anno della sua morte, la presenza artistica, la vicenda singolare della donna, attraverso la sua grandezza e incanto artistico è diventata vicenda collettiva. In quella voce straordinaria che riusciva a indurre il riso più gioioso o portare a lacrime di commozione gli ascoltatori, ognuno poteva sentire la propria sofferenza, il proprio passato, il proprio presente, la propria patria, ognuno in quella voce poteva ritrovarsi.
Il film, oltre all’indiscutibile valre artistico, nel doppio registro di lettura: biografico ed autobiografico, si rivela omaggio e riconoscimento della grandezza di Oum Kulthum e Shirin Neshat come artiste e come donne.
Ha girato alcune delle sue opere video, video-installazioni e filmati in Turchia, in Marocco e a New York. (come Umm Kultum).
Il suo amore per l’arte si rivelava già in uno dei suoi primi lavori in cui su volto, mani e piedi liberi dai veli aveva tracciato, con scrittura calligrafica persiana versi d’amore di poetesse iraniane.