Flavia Famà, nel ricordo di suo padre che non si piegò alla mafia.
Serafino Famà: esempio di amore per la professione, per la Giustizia, per i valori che fondano una “società armoniosa”. Associazione per i Diritti umani ha intervistato la figlia dell’avvocato, Falvia Famà, e la ringrazia moltissimo per il tempo che ci ha voluto dedicare.
Ci ricorda brevemente la vicenda di suo padre?
Mio padre era un avvocato penalista molto noto negli anni novanta che fu barbaramente assassinato la sera del 9 novembre 1995 con sei colpi di pistola calibro 7.65 da un commando di uomini che agirono a volto scoperto lasciando incolume il collega e amico che era insieme a mio padre.
Mio padre era un avvocato dalla schiena dritta che ha pagato con la vita la dedizione alla Toga e il non volersi piegare alle richieste di un boss di mafia.
Era accaduto, infatti, che il boss Giuseppe Maria Di Giacomo era stato arrestato nottetempo mentre era in compagnia della cognata Stella Corrado con la quale aveva anche una relazione, vicenda che costituiva un grave disonore per il boss, che aveva da poco avuto un figlio dalla moglie peraltro.
Stella Corrado era la moglie di Matteo Di Mauro, un esponente dello stesso clan che da poco aveva iniziato a collaborare con la giustizia e che era assistito da mio padre.
Di Giacomo era assistito dall’avvocato Bonfiglio e a questi si rivolse quando fu arrestato affinché convincesse mio padre a far testimoniare Stella Corrado nel processo in cui era imputato. La nostra legge prevede che i parenti stretti, come i coniugi e i cognati non sono tenuti a testimoniare, pertanto mio padre le consiglió di avvalersi di tale possibilitá.
Qual era la situazione in Sicilia, negli anni ’90, per quanto riguarda il rapporto Stato-Mafie?
In quegli anni ero poco piú di una bambina e non avevo percezione della gravitá del fenomeno e del radicamento delle mafie nel nostro territorio sebbene i telegiornali fossero un costante racconto di morti ammazzati e di negozi fatti saltare in aria, ma veniva percepito come qualcosa di distante da noi. Adesso posso senz’altro dire che un rapporto tra le mafie e parti dello Stato c’era e forse c’è tutt’ora, tant’è che su circa il 70% dei delitti di mafia non si sà la veritá e su alcuni c’è persino il segreto di Stato.
A seguito dei fatti, lei si è trasferita a Roma: quali erano i suoi sentimenti all’epoca?
Una volta conclusosi il processo contro gli assassini di mio padre volevo lasciarmi tutto alle spalle ed ero talmente ingenua da credere che lasciare la Sicilia avrebbe significato non avere piú a che fare con la mafia, ma mi sbagliavo.
Non solo la mafia a Roma c’è, ma è anche ben radicata come afferma la Relazione della Commissione Parlamentare antimafia degli anni Settanta e che è facilmente consultabile in rete.
Come è cambiata la sua vita dopo l’incontro con Don Ciotti e Libera?
Ho incontrato Libera nel 2005 in occasione del 21 marzo, la giornata della memoria e dell’impegno, che quell’anno si teneva proprio a Roma. In quell’occasione ho avuto la meravigliosa opportunità di ascoltare il racconto degli altri familiari di vittime innocenti delle mafie e per la prima volta non mi sono sentita sola. Fino a quel momento infatti non raccontavo quasi mai la storia di mio padre sia perché pensavo che nessuno potesse capire quello che si prova a vedersi strappare via un pezzo di vita, sia perché non vedevo l’utilitá di investire qualcun altro di un dolore cosí grande. Mi ci sono voluti altri quattro anni prima di incontrare degli studenti e raccontare la mia storia.
Don Luigi mi ha preso per mano e mi ha mostrato la bellezza e l’importanza di fare memoria, non solo un ricordo nostalgico, ma un racconto proiettato nell’impegno concreto accanto a chi fà le stesse battaglie per cui ha dato la vita mio padre e le troppe vittime innocenti delle mafie. Penso al lavoro che fa Libera accanto ai testimoni di giustizia o a sostegno dei familiari dei desaparecidos in America Latina dove la situazione è drammatica, ad esempio in Messico scompare una persona ogni venti minuti.
Cosa può fare la società civile per contrastare almeno la mentalità mafiosa? E quanto è importante il lavoro nelle scuole?
Il lavoro nelle scuole è fondamentale e bisogna sostenere gli insegnanti. Quando ero una studentessa, se tornando a casa mi lamentavo di un brutto voto o di un atteggiamento ostile di un insegnante, i miei genitori mi ammonivano dicendo che dovevo rispettare quel ruolo cosí importante; adesso vedo che molti genitori si accaniscono contro i docenti che spesso non sono messi in condizioni di serenitá. Ecco partirei dal recupero di questa figura. La mentalitá mafiosa trae la sua origine nell’atteggiamento di chi vuole prevaricare e chi non vuole rispettare le regole, a partire dalle basilari norme di convivenza civile. Se partiamo da noi stessi, iniziando per primi a non voltarci dall’altra parte quando vediamo qualcosa di sbagliato, se cerchiamo di realizzare rapporti che creino valore e a dare importanza non solo al nostro piccolo io ma anche agli altri, allora possiamo cambiare la mentalità anche di chi ci circonda. Rispettare noi stessi, gli altri e l’ambiente è la base per costruire una societá armoniosa.