Intervista a Regina Egle Liotta Catrambone, Direttrice del MOAS (Migrant Offshore Aid Station)
Associazione per i Diritti umani ha intervistato, per voi, Regina Egle Liotta Catrambone, Direttrice del MOAS (Migrant Offshore Aid Station) e la ringrazia moltissimo per il tempo che ci ha voluto dedicare. Ringrazia anche Maria Grazia Patania per la disponibilità.
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Quali sono le attività svolte dalla sua organizzazione?
MOAS (Migrant Offshore Aid Station) è nata nel 2014 col semplice obiettivo di salvare vite umane in mare quando tutti gli occhi erano puntati sulle banchine dei porti, ma nessuno aveva idea di quante persone morissero senza nemmeno essere avvistate e soccorse.
Abbiamo voluto colmare un vuoto lasciato dalle politiche migratorie europee e internazionali le cui lacune causavano un numero imprecisato di vittime che, nel tentativo di raggiungere un porto sicuro, perdevano la vita.
Con la mia famiglia ci siamo chiesti cosa potessimo fare per rispondere all’appello di Papa Francesco contro la globalizzazione dell’indifferenza e a quello delle autorità italiane che nel mentre avevano avviato la missione Mare Nostrum.
Da imprenditori e cittadini responsabili, abbiamo cercato di dare un contributo concreto per aiutare migliaia di persone in fuga da guerre, conflitti, persecuzioni, violenze o povertà estrema. E dunque dato che le persone morivano in mare abbiamo cercato una nave che fosse adatta alla missione di ricerca e soccorso: una volta trovata la Phoenix, l’abbiamo modificata in modo da aumentarne sicurezza e funzionalità e abbiamo costruito una piattaforma per il lancio/atterraggio dei droni che fino all’ottobre 2016 sono stati gli occhi del MOAS.
Nella missione SAR dell’aprile-agosto 2017, invece, abbiamo usato un velivolo dotato della stessa tecnologia dei droni che ci ha aiutati a individuare imbarcazioni in difficoltà a stento rintracciabili sulla superficie del mare.
Siamo orgogliosi di aver salvato e assistito durante le missioni SAR fra la rotta del Mediterraneo Centrale e l’Egeo 40 mila fra bambini, donne e uomini.
Siamo anche felici di aver ispirato altre organizzazioni a intraprendere per la prima volta missioni SAR in un spirito di collaborazione con loro e con le autorità che tramite l’MRCC di Roma coordinavano tutte le operazioni in mare.
Per questo, siamo stati i primi a firmare il codice di condotta proposto dal governo italiano anche se poco dopo abbiamo deciso di sospendere la missione nel Mediterraneo Centrale, evitando di diventare indirettamente parte di un sistema di respingimenti collettivi.
Alla luce del mutato scenario operativo, abbiamo scelto di non far parte di un meccanismo che non si preoccupa dei diritti e dell’incolumità delle persone, ma che mira soltanto a prevenire gli sbarchi sulle coste europee.
Motivati dall’esodo in corso dal 25 agosto e dall’appello di Papa Francesco in difesa della minoranza musulmana e apolide dei Rohingya, abbiamo dunque deciso di riposizionare la Phoenix nel sud-est asiatico e, dopo aver consegnato 40 tonnellate di aiuti umanitari alle autorità bengalesi, abbiamo inaugurato due centri medici di assistenza primaria o “Aid Station” a Shamlapur e Unchiprang nella regione di Cox’s Bazar in Bangladesh.
Da quel momento fino a fine marzo abbiamo assistito circa 60mila pazienti, di cui il 43% sono bambini e altrettante donne.
Adesso stiamo lavorando incessantemente per prepararci all’imminente stagione monsonica che, con l’eventuale ciclone, metterebbe a ulteriore rischio le vite di migliaia di persone. Le ultime stime parlano di 850 mila persone in pericolo, di cui circa 230 mila solo nel mega campo di Kutupalong.
È evidente che, se non si agisce in modo coeso e col sostegno finanziario ed operativo della comunità internazionale tutta, le conseguenze saranno catastrofiche sia per i rifugiati Rohingya che per la popolazione locale bengalese.
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Cosa rispondere a chi pronuncia lo slogan: “Aiutiamoli a casa loro”…?
Aiuta MOAS ad aiutare, rispondo! È quello che stiamo facendo adesso!
Siamo talmente abituati ad affrontare la migrazione e le sfide ad essa connesse secondo un criterio di prossimità che non ci rendiamo conto di come nessuna distanza sia tanto grande da non poter essere superata da chi fugge per cercare pace, sicurezza ed una vita migliore.
In Bangladesh stiamo intervenendo “a casa loro” e mi preme ricordare che nel 2017 in Italia sono sbarcati circa 9mila bengalesi, secondo le stime ufficiali del Ministero dell’Interno. Questo significa che, se non evitiamo che la situazione peggiori esponenzialmente, probabilmente dovremo ben presto fare i conti con nuove ondate migratorie da parte di chi nella propria terra ha perso tutto, tranne la speranza di un futuro migliore.
A livello globale, inoltre, bisogna pensare ad approcci condivisi e partecipati fra istituzioni politiche (ad ogni livello), organizzazioni umanitarie e società civile: solo così riusciremo a essere efficaci ed efficienti. Infine, per eliminare le cause che generano la migrazione, occorre attivare percorsi di sviluppo e informazione nei paesi di origine e transito. Purtroppo, la stragrande maggioranza delle persone che intraprendono i terribili viaggi verso l’Europa non hanno idea di cosa li attende ed è molta la disinformazione che alimenta false speranze.
Ma l’opinione pubblica e la politica in generale sembrano ripiegare costantemente su un egoismo che li fa interessare solo a quanto avviene attorno a noi, trascurando il resto e le sue conseguenze che inevitabilmente però finiscono per influenzare le nostre vite quotidiane.
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Quali nuove norme sarebbero opportune per agevolare le Ong che operano per il soccorso dei migranti in mare?
Credo sia indispensabile trovare delle norme condivise cui agire, oltre alla legislazione internazionale che fa certamente da cornice a qualsiasi attività in mare. Servirebbero più ordine e disciplina e un punto di partenza potrebbe essere la convocazione di un tavolo di esperti e professionisti del mare con conoscenze SAR (Ricerca e Soccorso) non solo da un punto di vista teorico, ma anche strettamente pratico. I negoziati, a mio avviso, andrebbero portati avanti invitando gli stati che accoglierebbero le persone soccorse in mare e che così avrebbero ulteriori garanzie sulla trasparenza dell’operato. In questo contesto, si potrebbe definire il codice operativo di coloro che, spinti dal desiderio di salvare vite umane in mare, decidono di impegnarsi in operazioni SAR. Fra i dettagli da discutere, andrebbero inseriti: standard minimi di training per gli operatori SAR, tipologia e caratteristiche delle navi da usare per ridurre al minimo i rischi e le difficoltà di chi viene salvato e di chi svolge i soccorsi oltre a caratteristiche precise sulla tipologia dei giubbotti di salvataggio da utilizzare e altro ancora. La chiave per migliorare in qualunque campo è condividere informazioni ed conoscenze maturate durante la propria esperienza e coordinare le attività al servizio dei più vulnerabili in un clima di dialogo costruttivo e aperta collaborazione.
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Ultimamente alcune Ong sono state messe sotto accusa: cosa possono fare i governi italiano ed europei per tutelare il loro lavoro?
Il Diritto Internazionale codificato e le varie convenzioni che normano il Diritto del Mare offrono tutti gli strumenti necessari per tutelare la vita e salvaguardare i diritti delle persone. Quello che manca è la reale volontà di farlo. Nel 2013 dopo il terribile naufragio del 3 ottobre e gli altri a seguire, la priorità era salvare vite umane in mare. Nonostante le carenze e i tanti aspetti migliorabili, c’era comunque la volontà di agire per tutelare l’incolumità delle persone. Dal dicembre 2016 e per tutto il 2017 l’atmosfera generale è enormemente cambiata. Basta pensare alla macchina del fango e alle fake news sulle ONG che inizialmente venivano “lodate” e che poi sono diventate taxi del mare. Le navi umanitarie sono state al centro di una campagna denigratoria volta a screditarne l’operato e il clima di sospetto ha investito qualunque manifestazione di solidarietà, fomentata da alcuni politici e giornalisti. Purtroppo, però, la paura di ciò che non si conosce –salvati e salvatori- continuamente alimentata da chi semina odio non è priva di conseguenze, come hanno dimostrato gli episodi di cronaca in cui moventi razzisti hanno scatenato atti di violenza.
Dobbiamo renderci conto che siamo tutti esseri umani e che i sentimenti che proviamo sono gli stessi ovunque. Abitiamo tutti lo stesso mondo e non possiamo illuderci che quanto avviene in una sua parte, per quanto remota, non ci coinvolga direttamente o indirettamente prima o poi. È veramente arrivato il momento di abbandonare odio e divisioni per scegliere una fattiva strada di pace, dialogo, fratellanza e solidarietà.