La vittoria di Orbán: facile vincere barando al gioco della democrazia
di Monica Frassoni (www.monicafrassoni.org)
Il Primo ministro Viktor Orbán, paladino di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, è riuscito a ottenere il risultato al quale mirava: raggiungere la maggioranza sufficiente a dargli la possibilità di cambiare la costituzione a suo piacimento, di smantellare la residua autonomia della Corte Costituzionale (dato che può da adesso nominarne tutti i membri) e di continuare la sua opera di trasformazione dell’Ungheria nella “democrazia illiberale” che persegue da tempo, senza particolari ostacoli o paletti politici e legali.
Questa vittoria è stata costruita nel corso degli ultimi anni, con un lavoro paziente, svoltosi sotto gli occhi consapevoli e indulgenti delle istituzioni comunitarie e in particolare del Consiglio e della Commissione. Una vittoria che viene da lontano, dunque, e che si basa sul noto detto “che bello vincere facile”. Lo spazio di azione della società civile e dei partiti di opposizione sono stati progressivamente limitati. “Fake news” ripetute a iosa li hanno delegittimati e azioni di “giustizia” a comando hanno posto notevoli ostacoli alla loro azione. Una ossessiva propaganda ha convinto gli ungheresi che il loro maggiore problema era il rischio di un’invasione islamica e un cosmopolitismo che ne avrebbe distrutto l’identità. Basta dare un’occhiata ad alcuni dei poster elettorali di Fidesz, come quello che raffigura la candidata del partito verde LMP, Bernadett Szél, coperta da uno chador, per dire che le politiche di apertura ai migranti avrebbero minacciato la libertà delle donne ungheresi.
Anche se Orbán stesso e altri importanti esponenti di Fidesz hanno studiato grazie a borse di studio del famoso speculatore diventato filantropo Soros, la battaglia ingaggiata contro di lui (copiata penosamente a pappagallo in Italia soprattutto da Giorgia Meloni) è solo un’altra di una guerra che ha lasciato sul terreno varie vittime illustri, come il più importante giornale di opposizione “Népszabadság”, costretto a chiudere nel 2016 dopo aver dichiarato bancarotta.
Le regole elettorali, che hanno ritagliato le circoscrizioni a profitto di Fidesz, permettono l’uso di database che segnalano le preferenze degli elettori (le cosiddette “liste Kubatov”), impediscono ai partiti di opposizione di essere presenti come rappresentanti di lista in tutti i seggi elettorali, non pongono alcuna regola per i finanziamenti, impediscono la formazione di coalizioni di partiti diversi, e via elencando i 36 errori nel sistema elettorale segnalati già nel 2014 dall’OSCE. Per non parlare dei media, vittime di un lungo processo di normalizzazione iniziato da anni e che ha portato l’Ungheria a un poco lusinghiero 70° posto su 180 nella classifica della libertà di stampa: tutto è permesso, dall’uso di “pubblicità progresso” per fare pubblicità a Fidesz, al controllo progressivo da parte di amici e sodali di Orbán della stampa locale e regionale; dall’istituzione – molto criticata a suo tempo a Bruxelles già nel 2010/2011 – di un consiglio per i media con poteri di supervisione dei contenuti e soprattutto di concessione delle licenze, alla proibizione ad alcuni media di fare domande durante le conferenze stampa, ecc… Risultato? Oggi l’Ungheria è il paese contro il quale si moltiplicano i casi di violazione inviati alla Corte europea dei diritti umani a Strasburgo, casi che il governo spesso perde, infischiandosene allegramente.
In questo disastroso contesto, fortemente favorito da regole del gioco completamente truccate e da una propaganda martellante e xenofoba, non sono riusciti a essere portati all’attenzione dell’opinione pubblica, e soprattutto a pesare nella decisione degli elettori, i casi di corruzione dell’entourage di Orbán, soprattutto a danno del bilancio e dei contribuenti europei. Né è emersa la grave contraddizione tra il discorso anti-europeo e nazionalista (ci dobbiamo difendere, ha dichiarato Orbán appena rieletto, ma chissà da chi!) e il fatto che l’economia ungherese stia a galla grazie alla sua appartenenza all’Unione europea, proprio quella che Orbán vorrebbe smantellare nella sua dimensione di spazio di diritto comune, per ridurla a una specie bancomat a suo profitto e senza controlli. È molto chiaro che la sua larga vittoria non potrà che avere delle conseguenze negative sul dibattito in corso sul futuro del processo di integrazione europea e rafforzerà non poco il prestigio del Gruppo di Visegrad e la sua determinazione a portare avanti quella che Orbán stesso ha definito una “contro-rivoluzione”.
Che fare allora? Innanzitutto, notare che in Ungheria esiste una opposizione e una società civile che combatte e che ha bisogno di sentire che non sono da soli di fronte a Orbán e i suoi. Non è un caso che nelle città più importanti Fidesz rappresenti una minoranza. Voglio qui rendere omaggio ai Verdi di Lehet Más a Politika (“La politica può essere diversa” – LMP), membro ungherese del Partito Verde europeo, che ha conquistato il 7% dei voti e 8 seggi dopo una campagna estremamente meritoria e difficile.
Ma soprattutto bisogna smettere di pensare che la “contro-rivoluzione” del Gruppo di Visegrad (o di Salvini e Meloni) si possa sconfiggere rincorrendone gli argomenti, senza ingaggiare una battaglia che è politica, culturale, legale, sociale e che si pone in frontale contrasto con i dis-valori che Orban rappresenta. “Inutile fidarsi delle imitazioni, scegliete l’originale” diceva Jean-Marie Le Pen: ha ragione, come abbiamo ben visto in Italia con il disastroso risultato del PD di Renzi-Minniti e la vittoria non solo politica, ma anche culturale, di Salvini.
In questo senso, emerge con evidenza la gravissima responsabilità del Partito Popolare Europeo di Antonio Tajani e Manfred Weber, che in questi anni (e anche in occasione di questa campagna elettorale) ha legittimato un operato del suo membro ungherese che si è rivelato sempre più autoritario e xenofobo, contrario ai valori democratici europei che il PPE dice di rappresentare. Un importante e prezioso sostegno, che dimostra la dannosa ambivalenza e il doppiopesismo irresponsabile di questa potente (ahinoi) famiglia politica europea. È stridente, infatti, il contrasto con la Polonia, governata da un partito che non fa parte del PPE e che si è trovata (giustamente) minacciata di sanzioni e ha dovuto aprire un negoziato con la UE su riforme non poi così diverse da quelle di Orbán. Insomma, viene invertito il ruolo dei partiti europei come elemento di rafforzamento e “armonizzazione” di standard di libertà e democrazia: il PPE, e in alcuni casi quali Romania o Slovacchia anche il PSE, hanno coperto e legittimato in maniera acritica membri che sfidano apertamente non solo valori come stato di diritto, non discriminazione, pluralismo e l’obbligo di elezioni libere ed eque, ma anche il progetto europeo. Un atteggiamento incomprensibile e totalmente controproducente!
Questo è il vero rischio per l’Europa oggi: che venga interrotta e spezzata qualsiasi dinamica di ripresa del processo di integrazione europea e di cambio radicale delle politiche economiche fin qui perseguite verso politiche più eque e solidali e soprattutto più efficaci a riassorbire ineguaglianze e fare ripartire l’economia in modo sostenibile; il rafforzamento di Orbán e dei suoi alleati, la “contaminazione” di una parte crescente della sinistra con le tesi anti-europee e sovraniste alla Mélenchon, la prospettiva di un governo guidato da forze politiche anti-europee e xenofobe come la Lega e la sua coalizione di destra, o ambigue sui valori di convivenza e democrazia come i 5 Stelle in Italia, non promettono nulla di buono né per l’imminente battaglia sul bilancio europeo, né per la riforma delle regole di Dublino, né per la riforma dell’Eurozona, né per le prossime elezioni europee.
Sicuramente, questo è un trend che, viste anche le loro difficoltà interne e le loro ambiguità, Merkel e Macron, non potranno certo invertire da soli.
Oggi più che mai la UE appare indebolita non solo a causa degli errori madornali di politica economica che hanno favorito in questi anni una inutile austerità senza risanamento e senza solidarietà, ma anche a causa dell’insipienza e della disattenzione dei suoi leader nei confronti di pratiche illiberali ed autoritarie, che hanno portato nel corso di questi anni alla conquista di sempre maggiore consenso da parte di forze politiche che negano i suoi stessi fondamenti, anche attraverso la manipolazione delle regole del gioco e il controllo dei media.
Questo, è bene ricordarlo, non è “solo” un problema di diritti e libertà, ma ha o avrà anche delle ripercussioni economiche e sociali devastanti: tanto per fare un esempio, l’economia ungherese soffre di una corruzione endemica, di una progressiva “invasione” dello stato nell’economia come ai bei tempi del “socialismo reale”, di una forte crisi del sistema educativo e sanitario; è, a detta di molti economisti, “insostenibile”, anche perché l’unica fonte di una qualche crescita è costituita dai fondi europei che riceve e che sono destinati a ridursi drasticamente nei prossimi anni. Le ricette di Orbán, a partire dalla mano dura sui migranti – praticamente inesistenti in terra magiara – , non porteranno alla soluzione dei problemi degli ungheresi, esattamente come le ricette di Salvini non porteranno alcun giovamento all’Italia, perché anche qui il nostro problema principale non sono né i migranti né la Legge Fornero. Rimane da capire se l’opposizione politica e sociale, ma anche le istituzioni UE attraverso un cambio visibile del loro atteggiamento su molti temi, saprà nei prossimi mesi favorire rapidamente l’ascesa di un‘alternativa convincente, sia in campo economico che dei diritti e delle libertà, in tempo utile per le elezioni europee del maggio 2019. In Ungheria. Ma anche in Italia.