23 maggio 2018, ventisei anni senza Falcone: le sue idee che camminano con noi
di Valentina Tatti Tonni
<<Sono un cadavere ambulante>>, era il 1986 quando Giovanni Falcone disse queste parole alla sorella, conscio del pericolo che correva. Era l’anno in cui sposò l’amore della sua vita, Francesca Morvillo, anche lei magistrato.
A Palermo con l’amico Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, nel 1983 grazie all’intuizione del procuratore capo Rocco Chinnici appena assassinato con un’autobomba, Antonino Caponnetto raccolse i pezzi e di fronte alla minaccia quotidiana introdusse il sistema del pool antimafia. Proprio come avrebbe voluto anche il defunto generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Neanche un anno dopo, il cosiddetto “boss dei due mondi” Tommaso Buscetta, il super pentito, andò a colloquio con Giovanni Falcone e cominciò a parlare. Gli parlò della famiglia di Porta Nuova, uno dei mandamenti di Palermo, dell’ascesa dei corleonesi, dei rapporti con la Banda della Magliana, dei rapporti con la politica. Queste dichiarazioni, unite alle indagini, permisero di istruire il maxiprocesso contro 475 presunti affiliati a Cosa nostra e a portarli alla sbarra. Il processo fu di portata talmente grande da rimbalzare nei medium di gran parte del mondo, tanto da risuonare agli occhi di chi non lo aveva vissuto quasi incredibile, una farsa. Ma il processo aveva ben altre intenzioni: dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio l’esistenza della mafia.
Il 10 febbraio del 1986 dall’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo, il carcere costruito a metà Ottocento che nell’idea originaria del filosofo inglese Jeremy Bentham avrebbe dovuto riabilitare il detenuto, il processo ebbe inizio. L’accusa aveva dalla sua parte circa ottomila pagine di incartamento. La sentenza di primo grado arrivò nel 1987 e dichiarò l’ergastolo per diciannove imputati mentre ne assolse centoquattordici. Nel 1990 sette dei diciannove ergastoli furono annullati dalla Corte d’Appello. La Cassazione, ultimo grado di giudizio, nel gennaio 1992 emise la sentenza definitiva ripristinando quella di primo grado. Il “teorema Buscetta”, come era stato fino ad allora chiamato, era diventato realtà effettiva. Nessuno più avrebbe potuto andare contro questa verità assoluta, o almeno così si credeva. In alcuni luoghi alla presa di coscienza ha fatto spazio l’omertà.
Ma non per il momento, nel 1992, perché come ebbe a dire Falcone: <<E’ un fatto storico: questo evento ha spezzato il mito dell’impunità della mafia>>.
Una volta che il Partito Comunista fosse rinato sotto altre vesti dopo la caduta del Muro di Berlino e successivamente dopo la caduta dell’Unione Sovietica, in Italia avrebbe preso ancor più piede un partito: la Democrazia Cristiana che proprio nell’89 vide salire sulle poltrone del potere Giulio Andreotti. Fu lui nel 1991 a chiamare Giovanni Falcone al Ministero di Grazia e Giustizia per riformare il sistema giudiziario in vista di una maggiore tutela dalla criminalità organizzata. Che fosse stato un gesto di facciata per allontanarlo dalla Sicilia, non ci è dato sapere, fatto sta che questo gli gettò addosso sia diffidenza che ammirazione. C’era infatti chi riteneva il trasferimento di Falcone a Roma come un gesto di mero opportunismo da parte del giudice. Naturalmente non era così e presto i maligni, con i risultati alla mano, dovettero tornare sui propri passi.
Alcune delle misure che Falcone introdusse in favore della lotta alla mafia riguardarono ad esempio il riciclaggio di denaro sporco, lo scioglimento dei Comuni per mafia, i reati a stampo mafioso che evitavano la scarcerazione agli imputati in attesa di conclusione dell’iter processuale, nonché l’istituzione della Direzione investigativa antimafia (Dia) con l’obiettivo di coordinare tutte le forze dell’ordine contro tutti i livelli di criminalità organizzata, dalla mafia all’ndrangheta e alla camorra. La Dia com’è noto è divisa in distretti, cioè in territori e in città (Dda, Direzione distrettuale antimafia), coordinata a sua volta da un nucleo centrale (Dna, Direzione nazionale antimafia) tutte in stretto collegamento tra loro, in modo da sopperire alla mancanza del pool antimafia che era stato di fatto smantellato.
Molti i nemici di Falcone tra il maxiprocesso e le nuove leggi. Lui lo sapeva, quando disse alla sorella di sentirsi un cadavere ambulante. Lo sapeva già nel 1989 dopo il fallito attentato o semplice avvertimento da parte di Riina e i suoi all’Addaura: vicino alla sua casa vacanze fu trovata una borsa con dei candelotti di dinamite inesplosi. Sapeva che prima o poi lo avrebbero ucciso.
Andiamo via per il weekend? Qualcuno lo avrà chiesto e così i coniugi Falcone partirono con gli uomini della scorta. Era il 23 maggio 1992. Un’esplosione, un boato. Un tratto dell’autostrada che dall’aeroporto conduce a Palermo, allo svincolo per Capaci, non c’era più. Nelle redazioni e nelle case i telefono cominciano a squillare, si teme il peggio. Alle 17.57 non c’era più molto da fare. Mentre i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinarom, erano stati investiti dall’onda esplosiva e quindi erano morti sul colpo, Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo moriranno in ospedale quella sera. Eccola, la strage di Capaci tra veri e occulti mandanti.
E’ a loro, alle vittime innocenti, che rendiamo merito e ossequio ogni anno da quel giorno.
Quest’anno si parte con la nave della legalità da Civitavecchia, gli incontri a Roma, Milano, Forlì, Bologna, Brescia e Catania.
L’iniziativa lanciata dal Ministero dell’Istruzione e dalla Fondazione Falcone, “Palermo chiama Italia”, riunisce migliaia di studenti e cittadini nelle strade e nelle piazze del capoluogo siciliano per gridare il dissenso verso la mafia, amando quelle idee che continuano a camminare sulle nostre gambe ancor oggi. Il 23 maggio poi ci sarà una commemorazione istituzionale allestita proprio nella verde aula bunker dell’Ucciardone, il “Grand Hotel” di cui si facevano beffa i mafiosi prima che qualcuno venisse a metterli in riga.