“America latina. Diritti negati”. Colombia, tra il bianco e il nero
di Tini Codazzi
La scorsa domenica 27 maggio ci sono state le elezioni presidenziali in Colombia. Le prime elezioni senza il terrore e le ombre della FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia), che nel 2016 ha firmato un trattato di pace con il governo nazionale. La FARC è stata un’organizzazione guerrigliera e terrorista di estrema sinistra, un gruppo armato con le mani macchiate di narcotraffico, corruzione, sequestri, maltrattamenti alla popolazione, morte. Un curriculum pieno di violazioni sistematiche dei diritti umani, che ha terrorizzato la Colombia per più di 50 anni, lasciando più di 8 milioni di vittime secondo il Registro Unico de Víctimas. Quindi, un processo elettorale molto sentito dal popolo colombiano, perché finalmente in pace, dove si sono visti gli ex capi delle FARC votare e non sparare.
Subito dopo il giorno delle elezioni, il candidato Gustavo Petro ha denunciato irregolarità durante il processo: voti comprati, fotocopie di schede elettorali, manomissione delle schede, schede non digitalizzate, ecc. Dopo una indagine, l’ente elettorale colombiano ha annunciato che ci sono stati problemi e piccole anomalie, ma non presentano le caratteristiche dei brogli, è tutto nella norma, come di solito succede nei nostri Paesi latinoamericani. Parte del popolo, della stampa e alcuni candidati presidenziali non sono molto convinti.
Il sistema elettorale colombiano prevede che per vincere, il candidato debba superare la soglia del 50 % dei voti. In questa occasione, nessun candidato l’ha raggiunta, per cui si dovrà andare al ballottaggio tra Iván Duque, economista, con il 39% dei voti, candidato per il Centro Democratico e Gustavo Petro, ex guerrigliero del M-19 (organizzazione di guerriglia rivoluzionaria di sinistra che ha terrorizzato diverse zone della Colombia dal 1970 al 1990), con il 25% dei voti per la coalizione Colombia Humana. Il primo è il candidato della destra, il secondo è il candidato dell’estrema sinistra. Il Bianco e il nero. In Colombia, per le elezioni presidenziali, quasi non ci sfumature, i grigi sono stati sconfitti subito, la bilancia è sbilanciata.
Tutti e due i candidati avrebbero punti deboli, sono agli antipodi: Iván Duque emerge nelle aziende private e nella competitività, punta molto sull’economia, ma è stato criticato per essere troppo giovane (41 anni), senza esperienza, troppo conservatore e vicino all’ex presidente Álvaro Uribe; quest’ultimo è stato accusato di essere stato amico di Pablo Escobar e di aver facilitato il narcotraffico, di essere stato responsabile del crollo del sistema dell’istruzione pubblica e dell’aumento della disoccupazione, di torture e violazione di diritti umani da parte delle forze dell’ordine durante il suo mandato. Non è un bel biglietto da visita per Duque.
Dall’altro canto, il discorso di Petro è contro la corruzione, contro i tradizionali partiti politici, contro il sistema, punta sul sociale, sul popolo, ma è stato criticato per essere ex-guerrigliero, per essere stato “amico” del defunto ex presidente venezuelano Hugo Chávez (responsabile della crisi umanitaria ed economica che vive il Paese), di voler fare una assemblea costituente come quella fatta in Venezuela da Nicolás Maduro e, quindi, è accusato di voler allearsi al pericoloso asse politico castro-chavista di Cuba e Venezuela. La propaganda di Petro è pericolosa in questo momento storico latinoamericano ed è molto simile a quella fatta da Hugo Chávez in Venezuela e da Evo Morales in Bolivia, per cui, sicuramente, nemmeno in questo caso, il biglietto da visita paga.
Cosa succederà il prossimo 17 giugno al ballottaggio? Nei sondaggi sui social network sembra vincere largamente la destra di Iván Duque. Ma l’America Latina è un continente complicato, il continente del realismo magico e delle grandi dittature, un continente paradossale, culla di Gabriel García Márquez, di Isabel Allende, di Mario Vargas Llosa, di Rigoberta Menchú, di Simón Bolivar, di Shakira, di Messi e di Pelé, ma è anche il continente di Augusto Pinochet, di Hugo Chávez, di Nicolás Maduro, di Manuel Noriega, di Daniel Ortega, di Pablo Escobar. Sta di fatto che il popolo colombiano, dopo decenni di violenze, sequestri, morti, terrore, paure, narcotraffico massivo, corruzione esagerata, vuole un po’ di tranquillità, vuole guardare finalmente verso il futuro. Il prossimo presidente colombiano avrà due compiti immediati molto importanti e delicati: aiutare a risolvere la crisi con il vicino Venezuela e mantenere la pace e i negoziati con le ex-FARC. Perché l’ America Latina sa sempre sorprendere e le ex-FARC potrebbero anche farlo.
Sarebbe stato interessante vedere vincere Sergio Fajardo, uomo di scienza, matematico di professione che è passato alla politica per affrontare una sfida. Ha vinto largamente nel 2003 le elezioni come sindaco di Medellín, città ampiamente conosciuta per essere stata la culla del narcotraffico per molto tempo. Fajardo ha cambiato completamente la faccia della città, l’ha trasformata riducendo gli alti indici di violenza, ha sanato le finanze pubbliche e ha raggiunto uno sviluppo urbanistico della città senza precedenti nella storia della Colombia. Domenica scorsa ha ottenuto il 23% dei voti, è arrivato terzo ma non ce l’ha fatta. Sarebbe stato positivo e anche logico, vista l’ esperienza riconosciuta da tutti durante il suo lavoro come sindaco e dopo come governatore, ma l’ America Latina sa sempre sorprendere. Peccato per Fajardo.