ANALISI. Macron, La Libia, l’Italia
Di Michela Mercuri
(cipmo.org)
Nel 1881 il Governo della Terza Repubblica francese, con un’azione di forza, stabilì il protettorato sulla Tunisia, obiettivo dei propositi coloniali del Regno d’Italia. Fu un attacco durissimo, tanto che la stampa parlò di “schiaffo di Tunisi” per sottolineare l’umiliazione subita dinanzi all’atto d’oltralpe.
Potrebbe sembrare un evento oramai consegnato al passato ma, a ben guardare, è ancora una valida lente interpretativa per delineare i rapporti tra Roma e Parigi.
La storia degli ultimi anni, specie dal 2011 in poi, è costellata di episodi che lasciano poco spazio a interpretazioni buoniste. L’azione internazionale in Libia è stata voluta dall’allora Presidente francese Nicolas Sarkozy anche per mettere le mani sulle risorse del Paese e porre fine al “fastidioso” trattato di amicizia e cooperazione tra Roma e Tripoli. Seguono anni difficili in cui l’Eliseo continua a perseguire una propria agenda nell’ex Jamahiriya, spesso a danno dell’Italia.
Il vertice di Parigi per la Libia del 29 maggio è l’ultimo atto di questo percorso accidentato.
L’ambizioso Emmanuel Macron, dopo il fallimentare tentativo di pacificazione dello scorso luglio tra il Premier onusiano Fayez al-Serraj e il Generale Khalifa Haftar, uomo forte dell’est libico – che si è rivelato poco più di una photo opportunity – ha deciso di ritentare un nuovo summit. Se del primo incontro non aveva neppure avvertito il Presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni, questa volta, invece, pare aver approfittato della crisi politico-istituzionale del nostro Paese per cercare di segnare un gol praticamente a porta vuota.
Al di là delle congetture, però, quel che conta sono i fatti e, a ben guardare, anche questo tentativo si è risolto con un sostanziale nulla di fatto. Vediamo perché.
Da un punto di vista formale e diplomatico l’incontro di Parigi potrebbe apparire un successo, o comunque un importante passo avanti. Oltre a Serraj e ad Haftar erano presenti il Presidente dell’Alto Consiglio di Stato Khaled al-Mishri e il Presidente del Parlamento, con sede a Tobruk, Agila Saleh. Il vertice ha visto, poi, la partecipazione dell’inviato dell’Onu per la Libia, Ghassan Salamè, e dei rappresentanti di molti Paesi, tra cui quelli di Egitto ed Emirati Arabi Uniti, storici sostenitori del Generale e di Turchia e Qatar, da sempre vicini a Tripoli.
Tuttavia, non basta mettere quanti più attori possibili intorno a un tavolo per risolvere i problemi del Paese. Il “piano Macron” non ha condotto alla firma di nessuna dichiarazione di intenti tra i rappresentanti libici. Questa reticenza è sintomatica della persistente sfiducia tra le parti, del mancato riconoscimento reciproco tra gli attori presenti e, probabilmente, cosa ancor più grave, della loro dipendenza dalle milizie non presenti al vertice. Una criticità che potrebbe pregiudicare l’obiettivo più ambizioso proposto (o imposto) dal Presidente francese: elezioni a dicembre del 2018. L’opzione più probabile, infatti, è che una volta tornati a casa i vari leader continueranno a lavorare in ordine sparso, cercando di rafforzare la propria compagine. Prova ne sia che, a neppure 48 ore dall’incontro parigino, al-Mishri, importante rappresentante della Fratellanza Musulmana, avrebbe ribadito di non riconoscere la legittimità di Khalifa Haftar come comandante in capo dell’esercito libico, cosa che invece starebbe molto a cuore all’Eliseo. C’è poi un errore di fondo nell’approccio francese alla questione libica: le elezioni politiche in un contesto così frammentato e instabile non sono la soluzione per il consolidamento di un nuovo status quo. Sarebbe necessario invertire la prospettiva: non elezioni per stabilizzare la Libia, ma tentare di stabilizzare la Libia prima di indire elezioni. Viceversa, il vincitore dalla tornata elettorale potrebbe essere defenestrato, magari in maniera violenta, in poco tempo. Si tratta di un ragionamento che trova conferma anche nel fatto che molte delle milizie che controllano i Consigli politici e militari di alcune città libiche – tra cui gli Zintan e le potenti milizie di Misurata e Sabratha- hanno boicottato il vertice. Immaginare un percorso politico senza questi attori vorrebbe dire fare i conti senza l’oste e compromettere fin dall’inizio il processo di stabilizzazione del Paese.
E’ evidente, dunque, che per fare in modo che gli impegni presi non restino lettera morta sarà necessario uno sforzo costante della comunità internazionale che fin qui è sembrato mancare e soprattutto una visione comune, scevra da pericolose iniziative unilaterali come quella francese. Anche in questo caso sarebbe necessario invertire la prospettiva: non dovrebbe essere Macron a convocare le Nazioni Unite, proponendo un piano per la Libia, ma dovrebbero essere le Nazioni Unite a tracciare un percorso di pacificazione nazionale rispettato da tutti gli Stati membri.
Detto ciò, non dobbiamo restare a guardare sperando che la proposta francese fallisca per avere una “rivincita”, perché un fallimento non gioverebbe a nessuno e in primo luogo ai libici. Abbiamo ancora le carte per tentare di avere un ruolo in questo negoziato. Siamo presenti nel territorio con l’ambasciata a Tripoli e il consolato a Bengasi e negoziamo da tempo con gli attori locali che conosciamo meglio di chiunque altro, Macron compreso.
Del grande lavoro svolto in Libia negli ultimi anni dall’Italia e dei rischi di iniziative diplomatiche “personali” si è fatto portavoce anche il nostro Ambasciatore a Tripoli, Giuseppe Perrone, che, in una dichiarazione rilasciata all’agenzia “Agi”, ha definito il vertice di Parigi “un’occasione altamente mediatica per ricordare ai libici la necessità di attuare gli impegni richiesti dal piano d’azione delle Nazioni Unite per superare la crisi libica”, ricordando, inoltre, che “divisioni e iniziative caotiche potrebbero contribuire al ritorno delle barche della morte”.
Non resta che augurarci che il neonato governo italiano tenga bene a mente queste parole e restituisca all’agenda libica la priorità che merita, agendo di conseguenza.