“Diritti umani e imprese”. Guida al lettore
di Fabiana Brigante
Che cosa si intende quando si parla di ‘imprese e diritti umani’ e quali sono i fattori che influenzano lo sviluppo di tale settore?
Il fenomeno della globalizzazione economica ha certamente consentito l’affermazione sulla scena mondiale delle imprese quali attori in grado di svolgere un ruolo dominante in campo non solo economico, ma anche politico, al punto da influenzare ed orientare le decisioni globali a discapito degli attori statali. Ci si riferisce soprattutto alle imprese multinazionali, enti operanti sul mercato mondiale attraverso una struttura complessa e gerarchizzata, che ha il proprio centro decisionale in una holding, o società madre, stabilita in un determinato paese, in grado di controllare le operazioni delle sue succursali o affiliate costituite in Stati diversi.
I decenni intercorsi tra gli anni Settanta e la fine degli anni Novanta sono stati caratterizzati dal tentativo di disciplinare l’impatto delle imprese multinazionali sullo sviluppo e sulle relazioni internazionali. Tuttavia, nonostante gli sforzi e le risorse impiegate, non si è mai raggiunto uno strumento universalmente accettato e avente forza di legge. Il primo fallimento in tal senso si è registrato nel 1992, all’esito di un lungo processo sviluppatosi in seno al Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC). Quest’ultimo aveva istituito due organi con lo scopo di redigere un progetto di Codice di condotta che regolasse l’attività delle imprese, contenente meccanismi di controllo e sanzione e avente valore di trattato internazionale. Le trattative, durate 15 anni, terminarono infruttuosamente a causa di insanabili disaccordi tra gli Stati. Allo stesso modo, la fine degli anni Novanta vide naufragare l’adozione dell’Accordo Multilaterale sugli Investimenti (MAI), il quale avrebbe dovuto essere un mezzo per reintegrare i Paesi in via di sviluppo nell’economia globale garantendo l’afflusso di nuovi capitali di investimento. Il progetto apparve però troppo favorevole per gli Stati esportatori di investimenti; ne vennero contestati soprattutto i rischiosi effetti ambientali e sociali, considerando che la liberalizzazione degli investimenti avrebbe potuto accentuare la violazione da parte degli investitori privati delle normative statali.
In seguito agli insuccessi rilevati in seno all’ONU e all’OCSE, un’inversione di rotta ha portato alla predisposizione di atti giuridicamente non vincolanti e per questo chiamati atti di “soft law”. Questi strumenti devono essere considerati come mezzi alternativi a carattere persuasivo e di tutela della reputazione, inducendo l’adesione volontaria delle imprese agli stessi.
Il concetto va di pari passo con quello di “responsabilità sociale d’impresa” (o Corporate Social Responsibility). Un’esaustiva definizione di tale concetto è stata fornita nel 2001 dalla Commissione Europea quale “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. Dunque, la produzione di beni è vista non solo come strumento di profitto, ma anche come occasione di realizzazione del benessere sociale. Essere “socialmente responsabili” significa gestire le operazioni economiche in modo da controllare e possibilmente migliorare gli effetti sociali ed ambientali dell’attività di impresa.
A sostegno del mutato atteggiamento, si ricordano diverse iniziative, tra cui le Linee Guida dell’OCSE e la Dichiarazione Tripartita dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Le Linee Guida sono raccomandazioni che i governi, congiuntamente, rivolgono alle imprese multinazionali e il cui rispetto è volontario. Sebbene le raccomandazioni contenute nelle Linee Guida non siano vincolanti per le imprese, lo sono tuttavia per gli Stati firmatari. È su questi ultimi che incombe la responsabilità di promuovere la loro applicazione: su di essi incombe l’obbligo di dotarsi delle strutture necessarie per l’implementazione delle stesse. In Italia ciò è avvenuto nel 2002 con l’istituzione del Punto di Contatto Nazionale, il quale ha il compito di assicurare la diffusione e la corretta attuazione delle Linee Guida, sia rispondendo alle domande degli interessati, sia attraverso iniziative che facilitino il confronto, il dialogo e la collaborazione fra istituzioni (ivi inclusi i PCN di altri Paesi), mondo economico, e società civile. La Dichiarazione Tripartita dell’ILO, così chiamata perché la sua elaborazione ha coinvolto rappresentanti degli Stati, dei lavoratori e degli imprenditori, costituisce una guida per imprese multinazionali, governi e organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori in ambiti quali occupazione, formazione, condizioni di vita e di lavoro e relazioni industriali.
Gli anni più recenti sono stati contrassegnati dallo sforzo dell’ONU di elaborare un sistema normativo internazionale che fosse giuridicamente vincolante e che si rivolgesse direttamente alle imprese. Il traguardo più recente si è raggiunto con l’adozione nel giugno del 2011 di una serie di Principi Guida in materia di diritti umani e imprese multinazionali da parte del Rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite sui diritti umani e le imprese multinazionali John Ruggie. La struttura interna dei Principi Guida è suddivisa in tre pilastri (pillars). Essi si riferiscono a: i) l’obbligo degli Stati di proteggere i diritti umani; ii) la responsabilità delle imprese di rispettare i diritti umani; iii) la necessità di garantire alle vittime e potenziali vittime di abusi l’accesso a rimedi giurisdizionali e non.
In Italia, in attuazione dei Principi Guida è stato adottato il Piano di Azione Nazionale (PAN) su Impresa e Diritti Umani 2016-2021, risultato del lavoro del Gruppo di lavoro interno al Comitato Interministeriale per i Diritti Umani (CIDU). Tra le priorità individuate dal PAN che costituiscono le sue principali aree di azione vi sono la promozione di processi di due diligence, con particolare attenzione alle piccole e medie imprese; la promozione della protezione e della sostenibilità ambientale; il contrasto alle forme di sfruttamento, lavoro forzato, schiavitù e lavoro irregolare, con particolare attenzione ai migranti; la promozione dei diritti fondamentali del lavoro nel processo di internazionalizzazione d’impresa, con particolare riferimento ai processi produttivi globali; il contrasto alla discriminazione e la promozione delle pari opportunità. Per quanto concerne l’accesso ai rimedi giudiziari, il PAN ha previsto l’istituzione di un Gruppo di Lavoro su Impresa e Diritti Umani (GLIDU), con il compito di monitorare la progressiva attuazione del PAN, di coordinare il lavoro e di proporre future possibili revisioni. Tra le altre cose, il GLIDU è incaricato di identificare lacune o barriere che impediscano in tutto o in parte alle vittime di abusi collegati all’attività d’impresa di accedere a rimedi giurisdizionali, anche riguardo alle violazioni commesse da imprese italiane operanti all’estero attraverso imprese sussidiarie e/o partners. Il PAN prevede anche l’attivazione di corsi di formazione per giudici e avvocati sul tema e lo spiegamento di risorse per garantire l’accesso al gratuito patrocinio alle vittime, anche ai cittadini stranieri non residenti.
L’excursus effettuato nel presente articolo, lungi dal voler essere esaustivo, si pone l’obiettivo di fornire ai futuri lettori della rubrica gli strumenti per acquisire una conoscenza minima delle tematiche raggruppate sotto la locuzione “imprese e diritti umani” e di fare il punto sulla situazione attuale dell’Italia in tale contesto. Come si potrà facilmente intuire, lo scenario attuale, lungi dall’essere rassicurante, lascia spazio a domande e “zone grigie” all’interno delle quali molte violazioni di diritti umani perpetrate dalle imprese restano spesso impunite. La presente rubrica ha dunque come scopo quella di tenere informati i lettori sulle sfide e gli sviluppi, in Italia ma anche all’estero, che le questioni relative a questo settore presentano.