Sembra mio figlio: il nuovo film di Costanza Quatriglio
Nelle sale cinematografiche dal 20 settembre. Consigliatissimo.
di Alessandra Montesanto
Ismail è un uomo dagli occhi a mandorla e lunghi capelli; vive in Italia, ma è di origine afghana, in particolare la sua etnia è quella hazara, minoranza perseguitata in patria. A nove anni è dovuto scappare dal Paese d’origine a causa della guerra. Con un sacrificio immenso, la madre impone ai due fratelli di fuggire in cerca di un luogo in cui vivere in pace e con dignità. Ismail, con il fratello Hassan, segnato dalle torture subìte per mano dei talebani, arriva in Europa dopo aver attraversato l’Iran, la Turchia e la Grecia.
La loro madre è rimasta in Afghanistan, sempre in attesa di notizie da parte dei figli. Ismail avverte, dalla voce della donna al telefono, che c’è qualcosa di strano e di inquietante perchè, ad un certo punto, la madre al telefono non riconosce più suo figlio. L’uomo decide, quindi, di ricongiungersi con lei, dopo circa vent’anni di lontananza forzata e, per questo, di affrontare il viaggio verso la propria terra, un viaggio duro e difficile perchè ormai Ismail, dal carattere forte, ma silenzioso, appartiene anche all’ Occidente, la sua identità è divisa in due. Nel percorso esitenziale di Ismail sarà fondamentale un’altra figura femminile: la donna di cui si sta innamorando, in Italia. Ma il viaggio verso le proprie radici fugherà i dubbi e cambierà il suo destino.
Ismail è l’alter ego del poeta Mohammad Jan Hazad, interpretato dal giornalista (e anch’egli poeta) Basir Ahang. Jan Hazad ha percorso gli stessi territori ripresi nel film, per gli stessi motivi e, dal giorno della sua partenza dall’Afghanistan, non ha più avuto notizie della propria madre; solo dopo averla rintracciata per caso, si accorge che la donna non lo riconosce dalla voce ed ecco che inizia il nostos di Jan/Ismail.
“Sembra mio figlio”: titolo dell’ultimo lavoro di Costanza Quatriglio che con quest’opera – presentata in anteprima mondiale, fuori concorso, al Festival di Locarno – nasce da un precedente film della stessa autrice, “Il mondo addosso” sul tema della vita degli immigrati in Italia. Un tema, quello dello strappo dalle radici, che si fa universale tramite i volti, gli sguardi, i non-detti degli attori protagonisti della nuova pellicola. C’è coraggio nel raccontare una storia di migrazioni sul grande schermo, in questi tempi bui di rigurgiti razzisti; c’è coraggio nel proporre una storia sui sentimenti, a lungo custoditi nel silenzio; c’è coraggio nel seguire gli animi, oltre ai passi, dei protagonisti, prendendosi tutto il tempo necessario; è un coraggio richiesto anche allo spettatore, che si trova ad immergersi in un altrove e che, per questo, è costretto ad abbandonare le proprie certezze. Alcuni dialoghi sono rimasti in lingua farsi, per restituire la verosomiglianza di una vicenda che, anche se raccontata attraverso la fiction, è molto vicina al reale.
Trieste fa da sfondo al racconto in Italia; Trieste, città di confine, simbolo di frontiere che in troppi vorrebbero chiudere e che, invece, devovo rimanere aperte per accogliere, per arricchirci e nutrirci. In particolare la Cultura dell’area di cui si parla in questo film non ha nulla da invidiare a quella occidentale: Storia, Arti, Pensiero hanno contribuito, nei secoli, a far maturare l’Umanità.
La regista è sempre stata brava a scegliere soggetti che evidenziassero i valori positivi, l’impegno, la profondità di persone a fronte di situazioni in cui l’essere umano si perde o è costretto a diventare invisibile. La cifra stilistica, nella prima parte, è segnata dal minimalismo, per entrare in punta di piedi nel cuore e nella testa di chi sembra tanto lontano da noi, ma non lo è affatto. Nella seconda parte, cambia il ritmo, muta l’estetica quasi a volere ripercorerre la differenza anche tra i due fratelli: uno più dolce e riflessivo e l’altro più inquieto e intransigente. Il risultato è un buon equilibrio tra potenza e intensità dove le donne non rimangono affatto sullo sfondo, anzi. Lo stesso Ismail ha cura e sensibilità di donna in un Paese devastato dalla guerra, voluta da uomini.
La minoranza hazara ha subìto una forte persecuzione, negli anni ’90, iniziata dal re dell’Afghianistan, Abdul Rahamn Khan; da allora è iniziata la diaspora contemporanea e come non ricordare le immagini della devastazione dei Buddha di Bamyan. Se si attacca la Cultura di un popolo, si attacca la sua identità e il nuovo film di Costanza Quatriglio parla di questo: di ricerca dell’identità, di ricongiungimenti familiari, di intercultura, di accoglienza degli stranieri. Accogliere non significa tollerare o adottare; significa accettare che dentro ognuno di noi c’è una parte dell’Altro e viceversa.