La vicenda di Peter Biar Ajak, detenuto ingiustamente in Sud Sudan
di Alessandra Montesanto
Blue House è il nome del famigerato carcere del Sud Sudan; dallo scorso 28 luglio vi è detenuto Peter Biar Ajak, giovane attivista per la Pace, con un’esistenza già travagliata.
Peter era uno dei cosiddetti “lost boys of South Sudan”, i bambini perduti, bambini separati dalle proprie famiglie e costretti a fuggire in altri Paesi a causa dei numersoi conflitti in patria.
Ajak, sfollato durante la guerra, prima vive in un campo profughi e poi riesce ad arrivare negli Stati Uniti grazie ad alcune organizzazioni umanitarie. Negli USA studia ad Harvard, dove si laurea, e successivamente consegue il dottorando a Cambridge, nel Regno Unito. Critico nei confronti del governo del Sud Sudan, ha fondato il Forum dei giovani leader del Sud Sudan (SSYLF) che vede impegnati donne e uomini, di tutte le etnie e politiche nel sostenere il dialogo di Pace. A giugno ha ricevuto il Premio “Leader for Tomorrow” da parte di Moussa Traorè, ex presidente del Mali. E poi l’arresto.
Un arresto arbitrario, privo di motivazioni che si scontra con la Costituzione secondo la quale non si può trattenere una persona senza accuse per più di 24 ore e per di più, nel suo caso, senza l’assistenza di un avvocato. Il fatto che Peter Biar Ajak sia, invece, ancora rinchiuso è preoccupante e mette in evidenza la stretta sulla libertà di espressione e l’abuso di potere da parte delle autorità.
Peter ha moglie e due figli.
Associazione per i Diritti umani si unisce ai numerosi appelli da parte dei media per chiedere la sua liberazione.