Il caso Eni: un primo passo in Italia verso l’affermazione di responsabilità delle imprese per violazioni dei diritti umani
di Fabiana Brigante
La Nigeria è il più grande produttore di petrolio in Africa. La sua industria si trova nel Delta del Niger, nel sud del paese, dove la produzione commerciale iniziò nel 1958. Una vasta rete di tubi che collegava numerosi giacimenti di petrolio e gas corre vicino le terre appartenenti alle comunità locali, alle loro case, terreni agricoli e corsi d’acqua. Il settore è gestito da joint ventures che coinvolgono il governo nigeriano e sussidiarie di società multinazionali; tra di esse figura anche la società ENI, registrata in Italia e operante in Nigeria tramite la sussidiaria NAOC (Nigerian Agip Oil Company Limited), dalla prima interamente posseduta e controllata.
La NAOC ha iniziato le operazioni petrolifere in Nigeria nel 1969, concentrando le proprie attività nelle aree onshore e offshore del Delta del Niger, dove vivono diverse comunità, tra le quali figura la comunità di Ikebiri.
Come è stato riportato da numerose ONG tra le quali Amnesty International1 e Friends of the Earth2, ogni anno centinaia di fuoriuscite di petrolio danneggiano l’ambiente e devastano la vita delle persone che vivono nelle zone circostanti; le cause vanno riscontrate in vari fattori. Alcuni sono il risultato di errori operativi e scarsa manutenzione, altri di “interferenze da parte di terzi”, come sabotaggio o furto (anche noto in Nigeria come “bunkeraggio”).
In accordo con quanto stabilito dalle leggi nigeriane, le compagnie petrolifere hanno chiari obblighi di prevenzione al fine di proteggere l’ambiente, nonché di rimediare agli eventuali danni causati dagli sversamenti di petrolio. Uno dei testi di riferimento in materia è l’Oil Pipelines Act (1990), il quale richiede al titolare di una concessione per l’estrazione del petrolio di “adottare tutte le misure ragionevoli per evitare danni inutili a qualsiasi terreno sul quale operi e qualsiasi edificio, coltura o albero presente su di esso”, e di “risarcire i proprietari o gli occupanti per qualsiasi danno provocato e non risolto” (sezione 6(3)). Ancora, la legge nigeriana richiede alle società petrolifere di operare seguendo “buona pratiche” e di rispettare gli standard riconosciuti a livello internazionale. La legge nigeriana chiarisce anche che, indipendentemente dalla causa, le compagnie petrolifere sono responsabili del contenimento, pulizia e risanamento di tutte le fuoriuscite di petrolio lungo i loro gasdotti e infrastrutture.
Le regole sono contraddittorie circa il momento in cui la compagnia dovrebbe intervenire, disponendo tuttavia che la risposta ad eventuali danni dovrebbe essere rapida. Una serie di linee guida e regolamenti sono state stabilite dal Dipartimento delle Risorse Petrolifere3, richiedono alle aziende di segnalare le fuoriuscite di petrolio entro 24 ore, e di visitare il sito nelle successive 24 ore. Vi è anche l’obbligo per le compagnie di ripulire la zona interessata entro 24 ore dall’evento inquinante.4
Il 5 aprile 2010 un oleodotto gestito dalla NAOC, è esploso a 250 metri da un torrente a nord della comunità Ikebiri. Lo sversamento ha colpito corsi d’acqua ed alberi essenziali per il sostentamento della comunità locale.
L’11 aprile 2010 una visita ispettiva congiunta guidata dalla NAOC ha citato un “guasto dell’attrezzatura” quale causa della fuoriuscita di petrolio. La perdita è stata fermata e l’area inquinata circostante è stata bruciata senza il consenso della comunità locale. Nessun’altra operazione è stata effettuata da allora, stante a quanto dichiarato dalla comunità. Un primo pagamento di 2 milioni di naira (circa € 6.000 al tasso di cambio del 2017) è stato effettuato alla comunità per i materiali di soccorso. Tuttavia, ad oggi, la comunità non ha ricevuto alcun risarcimento per i danni subiti alle proprie terre. Un’offerta iniziale di 4,5 milioni di naira (circa € 14.000 al tasso di cambio del 2017) è stata respinta dalla comunità, che ha ritenuto la somma risarcitoria offerta insufficiente rispetto al danno subito.
Nel maggio 2017, la comunità Ikebiri ha citato in giudizio Eni in Italia, dinanzi al tribunale di Milano, per bonifica e risarcimento di circa 690 milioni di naira (circa 2 milioni di euro). La comunità, attraverso il proprio rappresentante in giudizio Avv. Luca Saltalamacchia, ha sostenuto che le proprie fonti di sostentamento principali siano state danneggiate e che la NAOC non abbia adeguatamente posto rimedio al danno arrecato.Stando a quanto affermato da Eni, la NAOC avrebbe invece collaborato pienamente con le autorità nigeriane, nonché con i rappresentanti delle comunità di Ikebiri, e sostiene di aver prontamente ed efficacemente ripulito l’area interessata che sarebbe stata nuovamente ispezionata dalle agenzie di regolamentazione competenti in Nigeria, le quali avrebbero ritenuto il risultato soddisfacente. La NAOC si è inoltre difesa affermando che, in considerazione delle numerose attività illecite svolte nell’area, sarebbe impossibile stabilire una correlazione tra il presunto danno subito dalla popolazione di Ikebiri e la fuoriuscita di petrolio in questione5.
In caso di successo, questo sarà il primo caso di una società italiana ritenuta responsabile da un tribunale italiano per violazioni dei diritti umani e ambientali compiute all’estero. Ma perché la causa è stata incardinata davanti al tribunale di Milano e citando in giudizio Eni?
Nella prassi ricondurre gli atti compiuti dalle società controllate alla società controllante può risultare difficoltoso, a causa sia della pluralità dei modi in cui il legame tra detti enti può esplicarsi, sia della diffusa tendenza da parte delle imprese multinazionali a celare la propria struttura interna. La distinzione giuridica tra la società madre e le sue consociate, in base alla quale ogni ente è giuridicamente autonomo e, in via di principio, titolare del potere di decidere e gestire le proprie attività in modo indipendente, impedisce in linea di principio di affermare le responsabilità della società madre per violazioni di legge compiute dalle società sussidiarie. Infatti, l’autonomia patrimoniale insieme alla indipendenza giuridica, anche se fittizia, delle singole unità operative costituite e localizzate nei diversi Stati consentono alla società madre di rimanere estranea al rapporto di responsabilità che dovesse insorgere a fronte del compimento di illeciti da parte delle sussidiarie e al conseguente obbligo di risarcimento.
Tale fenomeno consente alla società madre di restare impunita anche quando le violazioni siano state compiute, seppur materialmente da una società formalmente distinta (la sussidiaria appunto), pur sempre sotto la sua egida o quanto meno nell’omertà della società madre che sia a conoscenza degli avvenimenti. Inoltre, in tal modo si impedisce ai ricorrenti di citare in giudizio la società madre presso i tribunali dello Stato in cui la stessa ha sede, che sono solitamente paesi nei quali gli standard di protezione dei diritti umani sono più elevati e le sentenze incontrano meno difficoltà nella fase dell’esecuzione.
Per tentare di porre rimedio a questa distorsione del principio di separazione della personalità giuridica tra società controllata e controllante è stata sviluppata la cd. dottrina del “sollevamento del velo sociale”, la quale mostra lo scenario in cui alla corte viene data l’opportunità di sollevare la maschera della personalità distinta ed emettere un provvedimento direttamente nei confronti della società controllante. In accordo con tale dottrina al giudice è dunque consentito individuare il responsabile effettivo e punirlo.
Ed è proprio in applicazione di tale dottrina al caso de quo si è scelto di citare in giudizio Eni davanti al Tribunale di Milano, e non già la NAOC dinanzi una corte nigeriana.
Il processo, tuttavia, non si è ancora concluso, né è facile prevederne l’esito; nel caso in cui la società dovesse essere condannata, il caso rappresenterebbe il primo precedente in Italia di una società ritenuta responsabile per danni ambientali causati da una sua sussidiaria all’estero, e dunque, un grande passo per l’affermazione della responsabilità legale delle imprese per le violazioni dei diritti umani.
2 http://www.foeeurope.org/sites/default/files/extractive_industries/2017/foee-eni-ikebiri-case-briefing-040517.pdf.
3 Department of Petroleum Resources, Environmental Guidelines and Standards for the Petroleum Industry in Nigeria (EGASPIN), revised edition 2002, p. 148, para. 2.6.3.
4 National Oil Spill Detection and Response Agency (NOSDRA), Oil Spill Recovery, Clean-up, Remediation And Damage Assessment Regulations, 2011, Part VII (102), p. 76.