La parola amianto
a cura di Alessandra Montesanto
Associazione per i Diritti umani ha intervistato Nora Picetti, autrice e regista dello spettacolo teatrale La parola amianto e la ringrazia molto per la disponibilità.
Il tema delle malattie e della sicurezza sul lavoro è, purtroppo, molto attuale. Ci può raccontare la vicenda delle operaie e degli operai della Centrale di Turbigo?
Alla Centrale Enel di Turbigo l’amianto era usato in un impasto per coibentare i tubi di metallo con vapore ad altissime temperature. Quando un tubo perdeva per ripararlo bisognava scoibentare, cioè rompere la copertura, e in questa operazione le fibre di amianto si liberavano nell’aria.
La vicenda ha inizio negli anni ‘70, quando i lavoratori cominciano a organizzarsi per la difesa della salute. Per prima cosa eleggono il CUD (Consiglio Unico dei Delegati), un gruppo di 20 lavoratori eletti direttamente dagli altri in modo da dare rappresentanza a tutti i reparti, e poi “importano” in Centrale un metodo messo a punto dai fondatori di Medicina Democratica, Luigi Mara, chimico, e Giulio Maccacàro, il medico che ha portato in Italia l’epidemiologia.
Il metodo si chiama “Ricostruzione operaia del processo produttivo” ed è assolutamente innovativo, perché valorizza il sapere operaio e lo integra col sapere accademico-scientifico.
Si tratta di ricostruire tutto ciò che avviene in Centrale a partire dai racconti dei lavoratori.
Si organizzano una serie di assemblee, divise per reparto, e ogni lavoratore racconta cosa fa, a quali rischi è esposto, con quali sostanze viene contatto e poi formula delle richieste per migliorare l’ambiente o l’organizzazione del lavoro in modo da essere più tutelato.
Sulla base di questi racconti e di queste richieste si facevano poi le piattaforme di rivendicazione, cioè le richieste ufficiali alla Dirigenza Enel.
Una battaglia importante, sui cui ha insistito Medicina Democratica, è stata quella contro la monetizzazione della salute: l’usanza era quella di dare delle indennità ai lavoratori esposti ai vari rischi, qualche soldo in più in busta paga. Ma così l’ambiente di lavoro continuava ad essere inquinato e pericoloso. Il sindacato, a Turbigo come in molte altre fabbriche, in genere accettava: ha sempre difeso i posti di lavoro e il salario, ma per difendere la salute i lavoratori hanno dovuto organizzarsi da soli e spesso anche scontrarsi apertamente coi sindacalisti. Lo dice bene un manifesto che avevano fatto per promuovere le assemblee “La tuta si lava, i polmoni no”. Con i soldi delle indennità non ci fai niente, non riduci nessun rischio. L’obbiettivo era ottenere che i dirigenti spendessero dei soldi per rendere più salubre e più sicuro l’ambiente di lavoro. Nello spettacolo ho ricostruito i vari passaggi di questa lunga battaglia, iniziata negli anni ‘70 e conclusa, parzialmente, solo quest’anno, il 15 maggio 2018, con la sentenza di Cassazione, che come dice l’avvocatessa di parte civile Laura Mara, “è una sentenza storica, straordinaria e francamente inaspettata, che ci insegna, oggi più che mai, che le uniche battaglie perse sono quelle non fatte”.
In che modo avete effettuato le ricerche per la stesura del testo? Avete raccolto anche testimonianze dirette?
Siamo partiti dalle testimonianze dirette di mio padre e dei suoi colleghi della Centrale, che hanno poi fondato la sezione di Turbigo dell’AIEA (Associazione Italiana Esposti Amianto). Particolarmente interessante è stato l’incontro con Emilio Pampaluna, che gli altri mi hanno presentato come “la memoria storica della Centrale di Turbigo”: è un ex lavoratore, sindacalista e membro della Commissione Salute del CUD, è stato un po’ la mente organizzativa di questa lunga battaglia. Quello che più mi piace di questo lavoro è proprio raccogliere le testimonianze orali, i racconti in prima persona, spesso plurale, ma anche valorizzare fonti trascurate dalla storia ufficiale: tutto un patrimonio di documenti, volantini, comunicati, cartelloni, verbali di assemblee, ricorsi al tar, foto, articoli di giornale, archivi personali, che le persone tengono in cantina, ma che sono fondamentali per ricostruire una vicenda dal punto di vista popolare e farla diventare Storia.
A questo si sono aggiunti i dossier di Legambiente, i rapporti dell’Ispra, e molti altri documenti sull’amianto che mi hanno passato Guglielmo Gaviani, che ha seguito la vicenda dall’esterno, come perito della Asl, e Valentino Gritta, presidente dell’AIEA di Turbigo.
Poi ho trovato testi sull’amianto di Plinio il Vecchio, Marco Polo, Calvino e Primo Levi e alcuni video dell’Istituto Luce sull’Eternit di Casale Monferrato.
Durante le ricerche una cosa mi ha colpito in particolare: un grafico che sovrapponeva la cronologia della diffusione industriale dell’amianto, con quello delle scoperte scientifiche sulla sua pericolosità. Praticamente coincidevano, cioè si sapeva da subito che era pericoloso, ma l’Industria dell’amianto ha puntato solo al lucro, ha fatto di tutto per mettere a tacere gli scienziati e i medici che raccoglievano dati epidemiologici sui morti di amianto e ha invaso il mercato con una pubblicità assordante sulle straordinarie proprietà e sulla sicurezza dell’amianto. Nello spettacolo quindi proietto foto di cartelloni pubblicitari e spot sull’amianto dal 1870 a oggi, e l’effetto è forte, comico e agghiacciante al tempo stesso…
Qual è il legame, in questo caso, tra tutela dell’ambiente e salute e la Politica?
Nello spettacolo si fa riferimento proprio alla Politica con la P maiuscola, a quell’insieme di azioni, reazioni, procedure che mettiamo in atto per difendere i beni comuni, in questo caso la salubrità dell’aria, la sicurezza e la salute pubblica. Ad esempio c’è una scena in cui coinvolgo direttamente alcuni spettatori per guardare la situazione da diversi punti di vista: c’è il proprietario del tetto che si fa due conti in tasca e decide di non rimuovere l’amianto, ma c’è anche il suo vicino di casa, che invece vuole che sia rimosso. Poi c’è il sindaco, che teme di perdere consensi se obbliga la gente a spendere soldi per rimuovere l’amianto. Poi c’è l’imprenditore della ditta di bonifica, che dovrebbe fornire mezzi di protezione ai lavoratori, e ci sono i lavoratori, che seguono attentissimi il corso sulla sicurezza, ma non capiscono una parola di italiano. Alla fine è il pubblico a votare: in scena viene presentata una situazione e la scelta etica sta al singolo spettatore, che la esprime attraverso il voto. Questa parte è pensata per i ragazzi delle scuole medie e superiori ma piace molto anche agli adulti, anche perché rende evidente in modo leggero e anche divertente, che il voto non basta, la delega non è sufficiente, e anzi a volte, quando ti viene chiesto di scegliere tra due cose (come salute o lavoro) in realtà significa che devi organizzarti per ottenerle entrambe.
Il titolo dello spettacolo si riferisce all’accordo tra sindacato, azienda e Stato nella vicenda dell’Ilva, in cui “scompare” la parola “amianto”?
Questa idea di far scomparire la parola amianto era già venuta negli anni ‘80 al Capocentrale di Turbigo: aveva vietato ai lavoratori di scrivere “amianto” nei documenti interni, dovevano usare “silicato” o “coibente”. La parola amianto faceva già paura, allora invece di affrontare il problema si preferiva cambiare parola, nella speranza che i lavoratori non si accorgessero del pericolo e non si attivassero per la difesa della salute.
Ci sono esempi in cui sono state attivate buone pratiche?
Direi che questa “Ricostruzione operaia del processo produttivo” è una buona pratica ante litteram, che andrebbe oggi esportata, fatta uscire dai luoghi di lavoro e applicata a tutta la popolazione, perché oggi siamo tutti esposti alle fibre di amianto rilasciate dal tetto del vicino o dalla fabbrica abbandonata, o dal pavimento della scuola. In Italia ci sono ancora 2400 scuole contaminate dall’amianto. Ora però ci sono anche tutti gli strumenti scientifici, tecnici, culturali e legali per procedere con le bonifiche e lo smaltimento. Due esempi da citare sono sicuramente quelli di Casale Monferrato e del Comune di Rubiera, che ha bonificato tutti gli edifici pubblici e poi ha attivato il CIAR Catasto Immobili Amianto Rubiera: attraverso foto satellitari, uso di droni, segnalazioni dei cittadini e sopralluoghi tecnici del Comune è stata fatta la mappatura dei tetti di amianto su tutto il territorio del comune. Poi con una procedura amministrativa standardizzata e con delle ordinanze il Comune obbliga i proprietari ad intervenire, anche usufruendo degli incentivi fiscali. Loro stessi fanno questo esempio: se c’è una tegola di una casa privata che rischia di cadere in testa ai passanti, è normale che il sindaco, in quanto responsabile della salute pubblica, faccia un’ordinanza per obbligare il proprietario a intervenire subito. A maggior ragione, essendo i morti di amianto molto più numerosi dei “morti da tegola”, dovrebbe essere normale e accettato che il sindaco possa obbligare i proprietari a rimuovere i tetti di amianto. Molti sindaci temono però che questa scelta sia impopolare, temono di perdere consenso se obbligano la gente a spendere soldi per l’amianto. Quindi tra le buon pratiche è doveroso citare anche le attività di AIEA, Medicina Democratica; Legambiente, e di tutte le altre associazioni che attraverso raccolte dati, petizioni, azioni legali, pubblicazioni di dossier, attivazione di sportelli amianto nei comuni o interventi nelle scuole, contribuiscono a informare la popolazione e favoriscono il censimento, la bonifica e il corretto smaltimento dell’amianto, perché come dicono a Rubiera, ogni metro quadro rimosso è un guadagno immediato per la salute di tutti”.