WALL: quel muro intorno ai territori occupati della Cisgiordania
di Alessandra Montesanto
Nel 2001 un giovane palestinese si fece saltare in aria in una discoteca di Tel Aviv: 81 ragazzi uccisi e 182 feriti. Gli israeliani iniziarono, da quel momento, a costruire un muro di cemento, filo spinato, check point e torrette intorno ai territori occupati della Cisgiordania (la barriera ingloba, oggi, la maggior parte delle colonie israeliane e la quasi-totalità dei pozzi d’acqua). Parte da qui il film intitolato Wall, scritto e diretto da David Hare e presentato alla IVa edizione del festival Visioni dal Mondo, festival del documentario di Milano.
Wall, un titolo semplice, per una questione complessa e irrisolta. La Cisgiordania, detta anche West Bank, è una cerniera geografico-politica che separa da una parte i palestinesi e dall’altra gli israeliani. I primi, rinchiusi, privati della libertà di circolazione e impoveriti a causa della mancanza di scambi economici e commerciali con l’esterno; i secondi, che dichiarano di vergognarsi per la situazione pur sentendo la necessità di difendersi con un muro per veder garantita la propria sicurezza.
David Hare è la voce narrante che cuce un puzzle di persone – note e comuni – viaggiando tra Gerusalemme, Nablus, una delle più grandi città della Cisgiordania, e Ramallah, capitale politica dell’Autorità palestinese: importanti sono, ad esempio, le riflessioni di alcuni arabi che vivono in tante città miste di Israele – Haifa, Tel Aviv, Jaffa, Ramle, Nazareth – persone che si trovano dentro i confini dello Stato israeliano, ma che si sentono sempre e comunque palestinesi.
Così come il territorio e gli abitanti della West Bank, anche il film è diviso in due capitoli che raccontano la vita nelle due zone: a Gerusalemme, città contesa e strumentalizzata, che ha perso il proprio antico fascino a causa della modernizzazione e a Nablus, rappresentata qui solo da un cafè in cui è appeso un ritratto simbolico di Saddam Hussein.
Il testo della pellicola nasce da uno spettacolo teatrale del 2009, ma la resa sul grande schermo è ancora più potente grazie alla tecnica della motion picture: i corpi e volti degli attori sono stati ripresi frontalmente per poi essere elaborati con l’animazione digitale. La fotografia, inoltre, è monocromatica (sfumature di grigio che gettano ombra su un’area del mondo abbandonata a se stessa) per arrivare al finale dove i colori, invece, esplodono dai graffiti che, sul muro di cemento, urlano slogan di giustizia, speranza e Futuro. La grafica e la tecnica diventano, quindi, una possibilità per trasformare la realtà e una denuncia della mancanza di volontà, da parte anche della comunità internazionale, nel voler trovare una soluzione pacifica tra due popoli condannati entrambi alla paura e alla rabbia. Due popoli eternamente in conflitto ed immancabilmente sconfitti.