Bambini sotto i tre anni nelle carceri: intervista a Luisa Betti Dakli
A cura di Alessandra Montesanto
Luisa Betti Dakli è giornalista, esperta di diritti umani, scrive su giornali italiani e stranieri, ed è in diverse associazioni come rappresentante su diritti, violazioni e discriminazioni. Ha realizzato la prima video inchiesta sui bambini con le mamme detenute in Italia dal titolo “Il carcere sotto i tre anni di vita” per la Rai, ha lavorato come autrice televisiva per Mediaset. Ha maturato una lunga esperienza nell’ambito dei diritti umani con ricerche e inchieste, soprattutto in Italia e in Medio Oriente, su violazioni, violenza di genere e abusi su minori, e sul ruolo legato ai media.
Associazione per i Diritti umani ha intervistato Luisa Betti Dakli e la ringrazia moltissimo per la sua disponibilità.
Prima di tutto, chi prende la decisione di tenere i figli delle detenute, ancora molto piccoli, in carcere?
La decisione la prende la mamma. Ma quando un bambino è molto piccolo, o se addirittura non c’è nessuno che lo possa tenere fuori al là della madre, è quasi automatico che rimanga con la detenuta, ed è per questo che per legge 62 del 2011 esiste la possibilità di custodia cautelare o di sconto della pena con detenzioni attenuate sia nelle Icam sia nelle case famiglia protette, o meglio ancora ai domiciliari.
Come si svolge la quotidianità delle madri e dei figli?
Nei 6 mesi che sono stata al nido di Rebibbia per girare la mia video inchiesta Il carcere sotto i tre anni di vita per la Rai, posso dire che il tempo non esiste: per i bambini la routine del carcere è una cosa che uccide perché tutto si svolge in un luogo ristretto. Dalle stanze dove dormono mamme e bambini stipati in letti e culle, alla stanza dei giochi dove i bambini fanno avanti e indietro con il cortile del nido, lo spazio è esiguo per uno sviluppo adeguato dei piccoli. Fortunatamente le associazioni di volontari, come Roma insieme per esempio, portano i bambini fuori: all’asilo, oppure la domenica in gita, e organizzano visite nella struttura per lo svago dei minori. E per questa è una salvezza.
Quali problemi vengono riscontrati nei bimbi, a livello psicologico, e come si potrebbe tutelarli?
Non è stato fatto uno studio accurato sulle conseguenze che un bambino può avere dopo aver passato i suoi primi anni di vita in un carcere, ma posso dire che quando il professor Bollea, il padre della neuropsichiatria infantile, vide la mia inchiesta, fece delle considerazioni molto precise. Lui diceva che negli sguardi di questi bambini poteva leggere le conseguenze di quella segregazione, danni che era inumano inferire. La loro smania di attirare l’attenzione degli adulti, l’aggressività di alcuni e la passività di altri, la difficoltà a concentrarsi su un gioco per più di pochi minuti, erano sicuramente segnali importanti di un disagio molto profondo.
Ci può parlare degli ICAM, Istituti a custodia attenuata per madri detenute, progetto partito dalla città di Milano?
Gli Icam sono Istituti a custodia attenuata che dovrebbero somigliare più a una casa famiglia che a un carcere, con il personale senza divise e uno spazio esterno. Oggi ne esistono 5: a Milano, Venezia, Torino e nella provincia di Cagliari e Avellino. Ma se pensiamo che la percentuale delle detenute si aggira sul 4% dell’intera popolazione carceraria e la maggior parte è in carcere per reati minori, ci chiediamo perché ci siano ancora bambini nelle sezioni femminili delle carceri italiane. I bambini, in tutto, sono una sessantina, 27 italiane con 33 figli e 25 straniere con 29 figli, e con la legge 62 del 2011 si era stabilito che le mamme con piccoli al di sotto dei 6 anni non dovessero più essere in carcere, salvo i casi di esigenze cautelari per gravi reati. Eppure sono ancora lì e cosa abbbia impedito alle istituzioni di risolvere un problema che potrebbe essere cancellato con la semplice applicazione della legge, non si sa. Fatto sta che ancora adesso, come nel caso di Alice Sebesta che ha ucciso i suoi due figli in carcere, il magistrato di turno può decidere di far rimanere in carcere, anche per una custodia cautelare, una mamma con un bambino piccolo, malgrado non si tratti di reati gravissimi come omicidio o mafia. Quando è accaduta la tragedia a Rebibbia, per esempio, a Casa Leda, che è l’unica casa famiglia protetta a Roma, c’erano tre posti liberi, ebbene, perché il magistrato, che non ha voluto mandare la donna ai domiciliari come richiesto dal suo avvocato, non ha pensato di collocarla a casa Leda? Forse oggi, se si fosse fatta più attenzione, quei bambini sarebbero ancora vivi.
Rebibbia è l’istituto di pena che reclude la maggior parte dei bambini, in prevalenza di etnia rom: quali buone pratiche si possono attuare per favorire l’inclusione dei genitori nella società?
La prima buona pratica dovrebbe essere quella di non avere più bambini nella struttura carceraria, un bambino non può crescere in uno spazio così angusto privato della sua libertà perché nasce libero e tale deve rimanere. E anche se devo ammettere che le operatrici di Rebibbia e tutto il personale è molto sensibile al fatto che quello è un nido e ci sono dei bambini, per loro è comunque una tortura. La seconda, che è correlata, è applicare la legge in maniera più attenta.