Etnographic novel: Senza confini. Seconda parte dell’intervista. Con Francesca Cogni
Ecco per voi, la seconda parte dell’intervista sulla etnographic novel “Senza confini”. Risponde Francesca Cogni, illustratrice della graphic e videoartista.
Associazione per i Diritti umani ringrazia molto Francesca Cogni.
Alla luce delle testimonianze da voi raccolte, quali sono le difficoltà comuni alle persone soggette a un nomadismo forzato? Anche perchè, in realtà, il nomadismo fa parte della Storia dell’umanità
Sono di più livelli.
Da una parte il fatto di essere obbligati ad oltrepassare le frontiere illegalmente, e quindi a piedi, spesso di notte, rischiando la vita in mezzo alla neve, su barche, in mezzo a deserti, in tunnel ferroviari e dovendo nascondere ad eserciti, polizia, e fascisti di ogni paese.
Poi c’è l’aspetto psicologico di tutta la questione, il limbo di attesa in cui le persone sono imprigionate dal momento in cui vengono identificate: non sapere cosa succederà, quanto tempo ci vorrà, l’ansia dell’intervista davanti alla commissione che deciderà se quello che è stato raccontato è vero oppure no – e il dover gestire emotivamente la cancellazione della propria biografia sotto l’etichetta di “storia inventata”, l’instabilità generata dalla paura di essere deportati, l’essere imbrigliati in sistemi di accoglienza che alimentano spesso la subalternità e la dipendenza, l’attesa di un visto, la speranza di un rinnovo, le nuove regole restrittive per i ricongiungimenti familiari e il riconoscimento della paternità.
Sono stati costanti di incertezza e attesa, che spessissimo portano a reazioni estreme, come autolesionismo, tentativi di suicidio, dipendenza da farmaci e da alcool, droghe etc Gli stessi psicologi e assistenti sociali – con cui più di una volta mi è capitato di confrontarmi – spesso sentono di non avere gli strumenti per affrontare queste situazioni traumatiche a cui si somma la violenza istituzionale – nella forma di precarizzazione costante e degradazione della dignità della persona.
Come si rapportano, le persone da voi intervistate, alla ricerca dell’identità, altra questione importante per chi vive e porta dentro di sé l’appartenenza a mondi e culture differenti?
Dipende. Per alcuni si tratta di una ricerca interiore, un partire dalle proprie radici per farsi ponte, ed è il caso di Nassi per esempio, una giovane donna italiana con genitori marocchini, che nell’attivismo ha trovato – e continua a cercare – la risposta all’essere nata casualmente dalla parte del mondo con il passaporto “buono”. Un altro esempio è Umar, che dopo il lungo viaggio dalla Siria a Berlino, ha ripreso i suoi studi interrotti in Social Consulting declinandoli al lavoro di sportello con rifugiati e richiedenti asilo.
Per altri invece l’identità è una questione collettiva, una riflessione attiva e incessante fatta all’interno di un collettivo o di un gruppo o di un progetto (Napuli, Turgay, l’Internation Women Space), oppure un punto di partenza per nutrire una rielaborazione critica in forma di testo, immagini, musica (Melissa, Muhammed).
In generale, ognuno trova le sue forme di resistenza per costruire una narrazione personale di questo concetto mobile, stratificato e spurio che è l’identità.
Perchè la scelta di trattare argomenti di stretta attualità (migrazioni, razzismo) nella forma della graphic novel?
Perché è un linguaggio che permette di raccontare il reale e l’onirico insieme, di ricostruire una storia ma anche di proiettarsi nel desiderio e nel futuro.
Il disegno è un linguaggio rispettoso e sensibile sia per la fase di ricerca, che per quella di restituzione.
Permette di raccontare l’irraccontabile. Non è invasivo – non è come usare una telecamera – e restituisce dei ritratti cangianti, in cui i protagonisti si ritrovano ma non sono schiacciati da un’immagine troppo aderente alla realtà, rispettando l’intimità della persona.
“Abbiamo sperimentato nel disegno un linguaggio lieve e non intrusivo, capace di per sé di generare un tempo di relazione e di “rappresentazione” immediatamente condivisa.
Il disegno si presta a un temporalità lenta. Può essere mostrato, regalato, ri-fotografato. È una forma di rappresentazione che rispetta l’intimità, pur avvalendosi di elementi che le rendono riconoscibili i protagonisti delle storie. Libero da un realismo stringente, permette di stilizzare i tratti somatici di una persona per “significare” migliaia di altre, in un racconto cangiante, polifonico, aperto all’onirico e al simbolico.
Il disegno – come linguaggio di rappresentazione e come strumento di ricerca e riflessione, come modo di ‘guardare’ ed esplorare la realtà – contiene un grande potenziale per sviluppare, nel racconto documentario, pratiche leggere e rispettose, e per modificare lo sguardo e creare nuove narrazioni del presente.” (dalla postfazione di Senza Confini)
Il fatto di dare dei volti disegnati e dei colori (i personaggi, e noi tra loro, hanno sempre un colore diverso in ogni tavola) era un modo per raccontare anche graficamente la ricchezza di questo mondo che viviamo oggi, meravigliosamente meticcio.