“Imprese e diritti umani”. Esportazione di armi: quando il “Made in Italy” non è motivo di orgoglio
di Fabiana Brigante
“Italia nel mirino per bombe sganciate sullo Yemen”, o ancora: “I produttori di armi e le autorità italiane sono responsabili per le violazioni di diritti umani in Yemen?” recitavano alcune testate giornalistiche nel 2016, all’alba di un attacco aereo che aveva colpito il villaggio di Deir Al-Hajari nel nord-ovest dello Yemen.
La guerra civile è scoppiata nel paese nel marzo del 2015, quando una coalizione militare a guida saudita intervenne in supporto al presidente Abd Rabbih Mansur Hadi, deposto dai ribelli Houthi, alleati dalla fine dell’anno precedente con l’ex presidente Ali Abd Allah Saleh.
I riflettori si sono accesi sull’Italia quando un membro della ONG Human Rights Watch, ha catturato con la sua macchina fotografica la prova della bomba da 460 libbre sganciata alle 3:00 dell’8 ottobre 2016 uccidendo una famiglia di sei persone. L’ordigno riportava un numero di serie che lo identificava come parte di un lotto prodotto nel giugno 2014 da RWM Italia S.p.A., azienda italiana controllata dal gruppo tedesco Rheinmetall AG.
Lo scorso aprile diverse organizzazioni tra cui lo European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR), insieme con l’organizzazione yemenita Mwatana e la Rete Italiana per il Disarmo in collaborazione con l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e le Politiche di Sicurezza e Difesa (O.P.A.L.), hanno presentato una denuncia penale contro i dirigenti di RWM Italia S.p.A. e gli alti funzionari dell’Unità per le Autorizzazioni dei Materiali d’Armamento – UAMA – alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma. Attraverso la denuncia si chiedeva al pubblico ministero di indagare, tra le altre cose, circa la responsabilità penale dei soggetti menzionati per la loro complicità quanto meno a titolo di colpa cosciente per i reati di omicidio e lesioni personali, ai sensi degli Artt. 589 e 590 e 61 n.3 del codice penale italiano. A seconda di quanto riscontrato durante il corso delle indagini del pubblico ministero, tali condotte potrebbero anche configurare ipotesi di concorso nei reati di omicidio e lesioni a titolo di dolo, ai sensi degli Artt. 110, 575 e 582 del codice penale italiano.
Nonostante le denunce delle violazioni dei diritti umani e circa l’impatto devastante del conflitto armato in corso sulla popolazione, l’Italia non ha negato la fornitura di armi ai membri della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita; non solo in pieno contrasto con quanto previsto dalla Legge n. 185/1990, che vieta l’esportazione di armi “verso paesi in conflitto armato”, ma anche contro gli obblighi comuni derivanti dalle norme UE sul controllo delle esportazioni e in violazione a quanto prescritto nel Trattato internazionale sul Commercio di Armi ratificato dall’Italia.
La L. 185/90, al suo Articolo 6 lett. d), specifica il divieto di esportare materiali di armamento “[…]verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa[…]”. Tra gli aspetti più rilevanti della legge vi è l’onere per il Presidente del Consiglio dei Ministri di presentare ogni anno al Parlamento una relazione sulle operazioni autorizzate e svolte – entro il 31 dicembre dell’anno precedente – riguardo import-export e transito dei materiali d’armamento. La Legge impone un obbligo di trasparenza nel prevedere che le informazioni contenute nella relazione debbano essere “indicazioni analitiche – per tipi, quantità e valori monetari – degli oggetti concernenti le operazioni contrattualmente definite indicandone gli stati di avanzamento annuali sulle esportazioni, importazioni e transiti”, nonché una “lista dei Paesi indicati nelle autorizzazioni definitive”.
Inoltre, l’Italia è stato il primo paese europeo a ratificare il Trattato delle Nazioni Unite sul commercio delle armi (Arms Trade Treaty – ATT), entrato in vigore il 24 dicembre 2014 con l’obiettivo di migliorare la regolamentazione del commercio di armi e prevenire (o eliminare) il traffico illecito delle stesse. Al suo articolo 7, il Trattato specifica che – a prescindere dai casi previsti nell’articolo 6 dello stesso Trattato in cui l’esportazione di armi è proibita – ciascuno degli Stati Parti deve valutare, “in maniera obiettiva e non discriminatoria e prendendo in considerazione ogni elemento utile”, se le armi che si intendono esportare possano essere utilizzate per: “Possono essere utilizzati per: “(i) Commettere o agevolare una grave violazione del diritto internazionale umanitario; (ii) Commettere o agevolare una grave violazione del diritto internazionale dei diritti umani; (iii) Commettere o agevolare un atto che costituisca un illecito ai sensi delle convenzioni internazionali o dei protocolli relativi al terrorismo di cui lo Stato è parte; oppure (iv) Commettere o agevolare un atto che costituisca un illecito ai sensi delle convenzioni internazionali o dei protocolli relativi alla criminalità organizzata transnazionale di cui lo Stato è parte”. In conseguenza, e nel caso in cui si configuri una delle ipotesi appena menzionate, lo Stato è tenuto a negare l’esportazione.
L’articolo 13 dello stesso trattato, rubricato “Presentazione dei rapporti”, prevede che ogni Stato Parte del Trattato presenti annualmente al Segretariato un rapporto sulle autorizzazioni o effettive esportazioni ed importazioni di armi convenzionali.
Ma di rapporti non parla solo il Trattato sul commercio delle armi. Anche l’Ufficio delle Nazioni Unite per il disarmo (UNODA), istituito nel 1998 con l’obiettivo di promuovere il disarmo nucleare e la non proliferazione e il rafforzamento dei regimi di disarmo rispetto ad altre armi di distruzione di massa, armi chimiche e biologiche, vede nel suo Registro delle Nazioni Unite sulle Armi Convenzionali (UN ROCA) il meccanismo chiave a garanzia della trasparenza nel trasferimento di armi.
Tuttavia, nonostante le disposizioni di legge, pare che la trasparenza sia rimasta per molti anni solo illusoria; infatti, è stato denunciato che dal 2009 l’Italia non invia informazioni circa le esportazioni di armi all’UNROCA. Anche per quanto riguarda l’incoraggiamento da parte dell’ATT di riportare annualmente al Segretariato di Ginevra informazioni circa il commercio di armi, è stato evidenziato che, ad esempio, nel rapporto dell’Italia del 2015 manchi l’elenco dei paesi destinatari dell’export di armi.
Il Ministro della Difesa Elisabetta Trenta si è pronunciata sul tema, comunicando di aver inviato pochi mesi fa una richiesta di chiarimenti alla Unità per le Autorizzazioni dei Materiali di Armamento, aggiungendo che laddove dovesse emergere una violazione della Legge 185 del 1990 si interromperà subito l’export di armi.
Il Parlamento Europeo è intervenuto sulla questione con una Risoluzione del 4 ottobre (2018/2853(RSP)) sulla situazione nello Yemen, esortando “tutti gli Stati membri dell’UE ad astenersi dal vendere armi e attrezzature militari all’Arabia Saudita, agli Emirati arabi uniti e a qualsiasi membro della coalizione internazionale, nonché al governo yemenita e ad altre parti del conflitto”.
Nel frattempo, nel Comune di Iglesias, in Sardegna,– dove si trova una delle sedi di RWM Italia S.p.A. –si discute sull’autorizzazione di due nuove linee produttive della società del gruppo Rheinmetall Defence. Esse consentirebbero la triplicazione della produzione di armi e quindi forse anche di sostenere ulteriormente il conflitto in corso. Nei mesi scorsi il Comitato Riconversione RWM e Italia Nostra Sardegna si sono costituiti nella Conferenza dei Servizi convocata per il procedimento autorizzativo in qualità di portatori d’interesse diffuso e hanno fatto presente all’amministrazione comunale di Iglesias numerose perplessità rispetto alla compatibilità ambientale del progetto ed alla correttezza dell’operazione dal punto di vista giuridico.
La questione resta aperta. Ma se è pur vero che, come recita l’articolo 11 della nostra Carta Costituzionale, “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali[…]”, bisogna far sì che questo principio non resti lettera morta.