“Imprese e Diritti umani”. A Natale non siamo tutti più buoni, e a pagarne le spese sono i lavoratori
di Fabiana Brigante
Il Natale è alle porte, e mentre le letterine di milioni di bambini sono in viaggio verso il Polo Nord, ai piccoli aiutanti di Babbo Natale vengono negati alcuni diritti fondamentali. È quanto è stato dimostrato da China Labor Watch, ActionAid, Solidar Suisse e CiR in un rapporto basato su indagini condotte da investigatori sotto copertura tra aprile e settembre di quest’anno in quattro fabbriche di giocattoli cinesi che rifornirebbero, tra gli altri, anche Disney e Lego. I risultati rivelano salari minimi inferiori al costo della vita, misure di sicurezza inadeguate a proteggere la salute dei lavoratori (carenza di maschere e guanti di bassa qualità), assenza di corsi di formazione dei lavoratori per prepararli alla manipolazione di materiali chimici tossici e al funzionamento di macchinari industriali (secondo il rapporto i lavoratori sono entrati in contatto con sostanze chimiche come il benzene, che è stato collegato ad avvelenamento e leucemia), numero eccessivo di ore di lavoro straordinario (fino a 175 ore al mese mentre la legge cinese stabilisce un tetto massimo di 36 ore mensili), condizioni di vita degradanti (dormitori sovraffollati, strutture igienico-sanitarie inadeguate), mancanza di organizzazioni sindacali indipendenti che rappresentino gli interessi dei lavoratori e di meccanismi di reclamo formali.
La situazione in cui versano i lavoratori delle fabbriche di giocattoli cinesi trova origine in diverse cause, prima fra tutte la pressione crescente da parte delle multinazionali. L’economia cinese è infatti entrata in una fase in cui i costi di produzione sono in crescita e il settore manifatturiero continua ad incontrare difficoltà. La guerra commerciale di Trump intensifica ulteriormente questo conflitto. Per sopravvivere, le aziende cinesi hanno spostato la pressione dell’aumento dei costi sui lavoratori. Seppure esse non accettino di essere considerate responsabili per le violazioni dei diritti perpetrate nelle proprie catene di approvvigionamento, queste aziende svolgono un ruolo attivo nello sfruttamento dei lavoratori, chiedendo alle fabbriche di giocattoli di aumentare le proprie quote di produzione e riducendo al contempo i costi. Come si evince dal rapporto, ad esempio, in un anno i costi di produzione per 100 giocattoli Hasbro e Mattel sarebbero di $100 USD (87€ circa). Tuttavia, l’anno successivo, per produrre lo stesso giocattolo, Hasbro e Mattel avrebbero richiesto alla fabbrica di realizzare 105 o più giocattoli a fronte dello stesso prezzo. Per lo stesso prodotto, le aziende trovano due o tre fabbriche di giocattoli in competizione nell’acquisizione degli ordini e la fabbrica che avrà il minor costo di produzione sarà quella che riceverà il maggior numero di ordini. Nella fabbrica di Wah Tung – una di quelle in cui sono state condotte le indagini – un operaio che produce la bambola de la Sirenetta, ha una quota di produzione di circa 1.800 – 2.500 giocattoli al giorno, lavora 26 giorni al mese e guadagna circa 3000 RMB (380€) al mese. Per ogni bambola prodotta, il lavoratore riceve 0,008 €.
Attualmente, questa bambola viene venduta a circa 37€ su Amazon. Dunque, un lavoratore di Wah Tung guadagna solo lo 0,02% del valore di mercato del giocattolo che produce.
Inoltre, in Cina ai lavoratori non sono garantiti molti diritti, ad esempio essi non godono del diritto di sciopero. Sembra che nei casi in cui gli scioperi si siano comunque verificati le autorità li abbiano severamente repressi. A questo si aggiunga che i sindacati stabiliti nelle fabbriche cinesi sono affiliati alla All-China Federation of Trade Unions (ACFTU) che – come affermato dalla Confederazione Sindacale Internazionale (CSI) – non è un’organizzazione indipendente in quanto sostiene gli interessi del governo e non può pertanto essere considerata una voce autentica dei lavoratori cinesi.
Infine, il rapporto registra violazioni ricorrenti delle leggi applicabili. Il diritto del lavoro in Cina si articola in molti regolamenti, ma spesso le fabbriche non vi aderiscono. Ad esempio, la legge cinese stabilisce dei limiti per l’impiego di studenti, i quali non dovrebbero lavorare per più di 8 ore al giorno e dovrebbero essere impiegati in campi rilevanti per il loro corso di laurea. Tuttavia, in molti casi non si registra una differenza tra il lavoro svolto dagli studenti e quello dei lavoratori regolari, né viene rispettato il limite di ore lavorative imposto dalla legge. Inoltre, spesso le imprese straniere si affidano ad agenzie intermediarie per l’assunzione di personale dipendente; il rapporto di lavoro che ne deriva presenta una struttura triangolare, in quanto non esiste un rapporto diretto tra dipendenti assunti tramite l’agenzia e l’impresa stessa. La legge cinese pone dei limiti all’assunzione di lavoratori tramite suddette agenzie in quanto i lavoratori assunti in questo modo sono più vulnerabili allo sfruttamento dal momento che qualsiasi reclamo o controversia viene gestito dall’agenzia e non dall’impresa, ma anche questo limite spesso non viene rispettato.
Il rapporto ha analizzato la situazione dei lavoratori applicando anche una prospettiva di genere. Analizzando il livello di gestione delle fabbriche si evince che nonostante le donne rappresentino l’80% dei dipendenti, pare che nessuna di esse rivesta posizioni dirigenziali. La maggioranza delle donne sceglie questo lavoro solo per mancanza di alternative a causa dell’età avanzata o per il basso livello di istruzione. Sono inoltre stati registrati anche casi di discriminazione nei confronti di donne incinte. Nonostante la legge cinese imponga che nessun datore di lavoro possa ridurre gli stipendi, licenziare o rescindere il contratto di lavoro a causa di gravidanza, parto o allattamento, è stato denunciato che nei casi in cui le lavoratrici abbiano richiesto giorni di ferie a causa di circostanze particolari come quella di prendersi cura dei figli o per gravidanza, esse siano state declassate a ricoprire posizioni lavorative più stancanti che le hanno costrette a dimettersi.
Cosa hanno risposto le imprese
Molti dei più grandi produttori di giocattoli, tra cui Disney e Mattel, sono membri del Ethical Toy Program (ETP) del Consiglio Internazionale delle Industrie dei Giocattoli (International Council of Toy Industries, ICTI), il quale si impegna promuovere la responsabilità sociale delle imprese operanti nel settore dei giocattoli, stabilendo, tra le altre cose, standard da rispettare per migliorare le condizioni lavorative.
Una delle fabbriche nelle quali sono state condotte le indagini è stata certificata dal ETP. Parlando a nome della fabbrica, il portavoce del ETP Mark Robertson ha dichiarato: “Le accuse evidenziate dal rapporto contravvengono alle esigenze del programma etico del giocattolo in materia di orari di lavoro, salari e ferie annuali. Lavoreremo direttamente con le fabbriche per risolvere eventuali problemi identificati […] Prendiamo molto sul serio le questioni sollevate da China Labor Watch e abbiamo iniziato le nostre indagini. Affronteremo in modo rapido ed efficace eventuali problemi identificati che violino i nostri standard”.
Robertson ha affermato che l’ETP ha ottenuto sostanziali progressi nell’innalzamento delle condizioni etiche negli stabilimenti certificati dell’organizzazione sia in Cina che altrove: “I salari sono aumentati, gli ambienti delle fabbriche sono più sicuri e le ore di lavoro si stanno riducendo; le ore di lavoro presso le fabbriche di giocattoli in Cina sono inferiori a quelle nei settori dell’abbigliamento e dell’elettronica.”
Un portavoce della Disney ha dichiarato che il marchio è stato un membro del programma Ethical Toy Program: “Disney ha un solido programma di standard lavorativi e prende molto sul serio l’applicazione del proprio codice di condotta in tutte le sedi. Abbiamo chiesto che il Consiglio esamini immediatamente queste affermazioni.”
Mattel ha dichiarato di non avere una produzione corrente nelle fabbriche menzionate nel rapporto di China Labor Watch: “Mattel si impegna a garantire che ogni singola persona che fabbrica i nostri giocattoli e prodotti sia trattata in modo equo, rispettoso e sia in grado di lavorare in un ambiente sano e sicuro. I nostri standard di lavoro, i nostri programmi ambientali, di salute e sicurezza e i nostri processi di supervisione rispecchiano questo impegno.”
Allo stesso modo, un portavoce di Lego ha affermato che il Gruppo non ha intrapreso rapporti commerciali con nessuno dei fornitori menzionati nel rapporto.
D’altronde, non è sempre facile individuare tutti gli attori che fanno parte di una catena di approvvigionamento di una data impresa. Allo stesso modo, tuttavia, risulta difficile pensare a un’impresa che non ne faccia parte, a prescindere dalle dimensioni, dalla posizione geografica e dal tipo di prodotti di cui si occupa. Infatti tutte le aziende si impegnano in varie transazioni con altri attori commerciali, attingendo a reti complesse per reperire i componenti più economici e forza lavoro a basso costo per massimizzare i profitti. A ciò si aggiunga che la mancanza di trasparenza spesso impedisce di individuare tutti gli attori coinvolti, e quindi, anche di individuare i soggetti responsabili di determinate violazioni.
Per il testo completo del rapporto (in inglese) si veda: https://www.solidar.ch/en/a-nightmare-for-workers