“Imprese e diritti umani”. Bloody fish
di Cecilia Grillo
L’industria dell’esportazione di frutti di mare, business dal valore di miliardi di dollari che vede coinvolti i mari e le coste tailandesi, risulta profondamente intaccata dal fenomeno delle violazioni di diritti umani. Nonostante le ripetute promesse da parte del governo locale di eliminare fenomeni quali schiavitù, lavoro forzato e la diffusa tratta di esseri umani nel settore peschereccio, abusi dei diritti umani sostanziali fanno da sfondo al panorama dell’industria ittica orientale.
Steve Trent, direttore esecutivo della Environmental Justice Foundation (EJF), che ha lavorato con il governo tailandese nell’implementazione delle sue riforme politiche, ha sottolineato come dovrebbe essere posta maggior attenzione al fine di assicurare che coloro che vendono prodotti ittici ai consumatori si assumano la responsabilità di garantire che le catene di approvvigionamento non agiscano in costante violazione di diritti umani.
Le prime avvisaglie del fenomeno del traffico di essere umani all’interno dei pescherecci tailandesi sono riconducibili al periodo successivo alle devastazioni di Typhoon Gay del 1989, disastro che ha provocato l’affondamento di oltre 200 pescherecci e causato almeno 458 morti, per la maggior parte membri di equipaggi di pescatori della povera regione nordorientale della Tailandia.
Mentre prima di tale calamità naturale le attività di pesca erano concentrate principalmente nel vicino Golfo tailandese e nell’Oceano delle Andamane, zone relativamente ricche di risorse marine e naturali, a seguito di Typhoon Gay gli equipaggi tailandesi hanno abbandonato il settore, lasciando i restanti proprietari di barche in un disperato bisogno di forza lavoro. Birmani, cambogiani e alcuni lavoratori migranti laotiani hanno iniziato a essere reclutati per rimpiazzare gli equipaggi tailandesi in rapido declino: migranti e brokers sono diventati i protagonisti di questo nuovo processo di tratta di esseri umani.
Inoltre fra gli anni ‘70 e ‘80 la Tailandia è stata spettatrice di una rapida modernizzazione e industrializzazione del settore ittico dovuta al verificarsi di un significativo calo delle attività di pesca e soprattutto all’aumento dei costi di gestione e dei prezzi del carburante.
Come risultato di Typhoon Gay, di questi e di altri fattori, il settore ittico tailandese è stato spettatore di cambiamenti drammatici che hanno riguardato sia il reclutamento della forza lavoro che le condizioni lavorative dei pescatori.
Negli ultimi anni sono stati numerosi i report di ONG e organizzazioni internazionali e centinaia le testimonianze che hanno evidenziato il peggioramento delle condizioni lavorative, estenuanti, a cui vengono sottoposti quotidianamente i pescatori, migrati in Tailandia nella speranza utopistica di ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro.
I pescherecci tailandesi percorrono le acque territoriali di dozzine di nazioni, in particolare Myanmar, Cambogia, India, Indonesia, Malesia e Vietnam, e viaggiano fino alla Somalia e in altre parti della costa dell’Africa orientale: negli ultimi quarant’anni, la Tailandia si è affermata come una delle principali nazioni produttrici di pesce del mondo.
Tuttavia, con il passaggio del tempo si è sempre maggiormente sviluppato il fenomeno del traffico di esseri umani nei pescherecci tailandesi: Human Rights Watch ha rilevato molteplici fattori indicanti lo svilupparsi di pratiche di lavoro forzato che gli organi di ispezione tailandesi non riescono a gestire in modo adeguato o sistematico, fra questi sono comprese le cattive condizioni lavorative; la sottrazione dei documenti di identità dei pescatori da parte dei brokers; salari trattenuti; orari di lavoro eccessivi.
Molti pescatori migranti, che si recano in Tailandia nella speranza di poter ottenere le risorse necessarie per mantenere le proprie famiglie nelle povere regioni di Myanmar, Cambogia, Indonesia, vengono spesso ingannati o rapiti dai cosiddetti brokers, che li rivendono ai capitani tailandesi, per cifre comprese tra US $ 500 e US $ 1.000 per schiavo.
Un sondaggio del 2009 condotto dal United Nations Inter-Agency Project on Human Trafficking (UNIAP) ha rilevato che il 59% dei migranti intervistati a bordo di imbarcazioni tailandesi ha testimoniato che almeno un proprio compagno, durante la permanenza in mare, è stato vittima di omicidio perpetrato da parte dei proprietari dei pescherecci.
In una sentenza insolitamente critica dell’ILO (International Labour Organisation), il governo tailandese è stato esortato a porre rimedio agli abusi perpetuati sulle navi da pesca che operano nelle acque tailandesi: il fenomeno del lavoro forzato è infatti ancora dilagante nonostante la nuova legislazione governativa e le continue pressioni da parte dell’UE e degli Stati Uniti.
Il reclutamento dei lavoratori nel settore della pesca tailandese rimane in gran parte disciplinato da processi di reclutamento informali che spesso sono connessi ad abusi e alla tratta di esseri umani. Molti pescatori vengono venduti ai proprietari di pescherecci (ad un certo prezzo pro capite, il ka hua, il costo addebitato dai trafficanti e pagato dai rappresentanti dei pescherecci per i pescatori vittime della tratta). Un pescatore trafficato deve in seguito lavorare per ripagare il proprio ka hua prima di poter ricevere la retribuzione per il lavoro svolto. A seconda dell’ammontare del ka hua, un pescatore potrebbe lavorare da uno a otto mesi prima di poter ricevere qualsiasi tipo di retribuzione.
Secondo quanto riportato da GreenPeace International, in relazione al traffico di esseri umani celato dietro l’attività ittica svolta lungo le coste tailandesi, il pesce pescato con queste modalità “può finire nelle filiere delle grandi compagnie tailandesi che producono prodotti ittici per i mercati internazionali. In particolare, potrebbe esserci un elevato rischio che il pesce pescato da tali flotte sia stato utilizzato per produrre surimi o il cibo per animali, venduto poi nei supermercati di tutto il mondo, tra cui anche quelli italiani”.
La Tailandia deve dotarsi di nuovi e ulteriori strumenti legali che trattino il lavoro forzato quale reato autonomo e che lo vietino in tutte le sue fattispecie. Il governo tailandese ha dichiarato che sta ora valutando attivamente la possibilità di ratificare il Protocollo ILO del 2014 relativo alla Convenzione sul lavoro forzato, che obbligherebbe la Tailandia a sviluppare pratiche volte a combattere il fenomeno del lavoro forzato. Inoltre, alla Tailandia sarebbe richiesto di sviluppare un piano d’azione nazionale per adottare “effective measures to prevent and eliminate its use, to provide to victims protection and access to appropriate and effective remedies, such as compensation, and to sanction the perpetrators of forced or compulsory labour”.
Il protocollo sollecita inoltre la Tailandia a “take effective measures for the identification, release, protection, recovery and rehabilitation of all victims of forced or compulsory labour” e aintraprendere “efforts to ensure that … coverage and enforcement of legislation relevant to the prevention of forced or compulsory labour, including labour law as appropriate, apply to all workers and all sectors of the economy”.
Luisa Ragher, vicepresidente della delegazione dell’Unione europea in Tailandia, ha affermato che l’Unione Europea si impegna a lavorare a fianco del governo tailandese per affrontare le violazioni e gli abusi dei diritti dei lavoratori.
Ha affermato infatti “il governo tailandese ha dato alta priorità alla risoluzione del problema del traffico di esseri umani e del lavoro forzato nei mari tailandesi. Ci sono ancora carenze, ma sono stati compiuti progressi e siamo fiduciosi del loro impegno per migliorare le cose. Stiamo lavorando intensamente all’apertura di una più ampia discussione sui diritti dei lavoratori”.
Tante tuttavia sono le iniziative provenienti dal settore privato che possono essere condotte nel tentativo di ostacolare il fenomeno della tratta di esseri umani nei mari tailandesi, quali, fra le altre, supportare proposte internazionali intese ad aumentare la trasparenza e la tracciabilità nelle catene di approvvigionamento di prodotti ittici e l’impegno da parte di importatori e rivenditori di prodotti di pesca tailandesi nel dimostrare che le proprie catene di approvvigionamento sono esenti dalle pratiche del traffico di esseri umani e da altre violazioni di diritti umani.
Inoltre anche i consumatori rivestono un ruolo importante nella riduzione del fenomeno della tratta degli esseri umani e del lavoro forzato, ad esempio tentando sempre di assicurarsi che tutti i prodotti ittici acquistati siano stati ottenuti attraverso l’utilizzo di pratiche sostenibili e senza l’impiego di manodopera trafficata o abusata.