Una notte di 12 anni: Pepe Mujica e i suoi compagni nel film di Alvaro Brechner
di Alessandra Montesanto
Uruguay. Dopo un colpo di Stato, il fronte comunista viene sconfitto e al Potere si insedia l’estrema destra che avvia una dittatura militare. A questa si oppone un’ala armata, quella dei Tupamaros. La guerra tra le autorità del regime e i guerriglieri è aspra: un’operazione segreta interna ai servizi, una notte del 1973, porterà all’arresto di nove tupamaros. Nel film si racconta la storia di tre di loro, tra cui, Pepe Mujica, che diventerà uno dei più amati presidenti del Paese.
La loro detenzione è crudele, basata su violenze fisiche e psicologiche: molti i trasferimenti dalle celle di caserme sempre più isolate. Poche le visite dei parenti, ancor meno le uscite all’aperto. Qualche spiraglio di luce si intravede in piccoli gesti di solidarietà da parte dei secondini, nella volontà dei prigionieri di rimanere attaccati alla Vita, anche attraverso il gioco, nonostante le condizioni terribili in cui si trovano.
Resta, infatti, la loro strenua resistenza, quella del corpo e della mente, resistenza iniziata all’improvviso una notte e durata per lunghi, dodici anni. Dopo la liberazione, Pepe Mujica, Mauricio Rosencof e Eleuterio Fernàndez, hanno segnato, con il loro esempio, la Storia e la Politica dell’Uruguay, iniettando nello spirito della popolazione, l’importanza della ricerca di Giustizia.
Una buia notte del ’73, le abitazioni di militanti, guerriglieri e simpatizzanti comunisti vengono prese d’assalto. Botte, celle sporche, oscurità assoluta, silenzio: in questa dimensione fuori dal Tempo e dallo Spazio si muovono figure incerte, quelle di tre prigionieri tupamaros, trasferiti in una caserma del regime. Così parte la terza pellicola del regista uruguayano Alvaro Brechner, che qui racconta una delle pagine più feroci della dittatura, con uno sguardo interno e partecipe.
Il Sistema impone che ogni militare sorvegli i militanti affinchè non si rivolgano la parola, ma loro escogitano un codice preciso, quello di battere sul muro con il pugno e, così, riescono persino a impostare una partita a scacchi con l’ausilio dell’immaginazione.
Vengono trasferiti in anfratti scavati nella roccia, in cui non riescono nemmeno a stare in piedi, ma loro riescono anche a scrivere lettere d’amore. Difficile espletare i bisogni primari, se si è ammanettati con le braccia legate troppo in alto ed ecco che, allora, vengono scomodati comandanti, generali e sergenti. Una punta di sarcasmo per screditare l’autorità nella ferocia della sua ottusità.
L’obiettivo degli esponenti della dittatura non è quello di uccidere i membri dell’opposizione, ma di farli impazzire, di far loro perdere la ragione e l’umanità. La sceneggiatura del film – a cui ha partecipato lo stesso regista – invece, pone l’accento proprio sulla capacità di resilienza, su quell’aggrapparsi alla realtà anche quando fanno di tutto per allontanarla dalla coscienza. Ed è sufficiente, ad esempio, una sbirciata dal cappuccio che preclude la visione. Il mondo resta nella testa, nei pensieri, nel ricordi di chi è ancora fuori, in uno stato di semi libertà. Ed è per loro che si lotta, che si resta in vita.
Non c’è logica nelle vessazioni a cui i tre reclusi vengono sottoposti: l’obiettivo è la loro follia, ma la follia è propria delle autorità. I carcerieri obbediscono agli ordini, come spesso accade ed è accaduto in tutte le guerre e in tutti i regimi.
Un racconto lungo, forse un po’ troppo, forse per rendere l’agonia di quei dodici anni trascorsi in balìa dell’arbitrarietà della violenza. Ogni tanto, un istante di allegria e di ironia per riportare alla Vita corpi e anime fiaccate, ma non sconfitte.
I toni e i generi si alternano: drammatico, lirico, anche thriller. La regia è presente, ma non invadente; il montaggio accompagna e insegue i protagonisti; ottima la scelta di usare, come commento musicale, il celebre pezzo “Sound of silence” portato al successo da Simon & Garfunkel, ma qui cantata dalla voce suadente di Sìlvia Pèrez Cruz, per un omaggio all’armonia melodica latinomaricana che esalta l’emotività di ciò che si narra.
Interessante anche l’uso di inserti onirici, di flashback per l’andirivieni psicologico dei militanti dal Reale, ma che – come detto – vi si aggrappano con tutta la forza possibile.
Una notte di12 anni (La Noche de 12 Años) riesce a far percorre allo spettatore quel lungo periodo che va dal 1973 al 1984 di Storia recente e diventa un documento necessario per rinfrescare la Memoria, Memoria che se però rimane sulla carta o su uno schermo, non è utile ad avviare un cambiamento. Il cambiamento deve avvenire, ogni giorno, dentro ciascuno di noi. Solo così ritroveremo la nostra umanità. E la abbracceremo.
TRAILER del FILM: