Comunicare il carcere. Rifestival, Bologna 2019
Durante il Rifestival (Bologna 2019) la conferenza “Comunicare il carcere” a cura di Elton Kalica, Antonio Ianniello e Valerio Pascali
Associazione Per i Diritti umani propone, come sempre, alcuni spunti di riflessione e di dibattito, riportando alcune parti di ciò che è stato riferito dai relatori.
Elton Kalica
Università di Padova, Ristretti Orizzonti
Il carcere è un’istituzione che viene data ancora per scontata. Noi vogliamo che non sia una realtà isolata dal contesto sociale, ma vogliamo affermare l’importanza della riabilitazione dei detenuti e il loro eventuale reinserimento nel tessuto comunitario.
A causa della ricerca della notiziabilità, da parte dei mass-media, le narrazioni passano in secondo piano, invece noi vogliamo rimetterle al primo posto.
Parlo del carcere dal punto di vista interno perchè sono stato dentro a lungo. I mass-media raccontano il Penale in un modo che spesso non corrisponde alla realtà e, per me, dare un’informazione diversa è una battaglia costante.
Il messaggio della stampa è che , in Italia, ci sia una Giustizia che non funziona, che le pene siano insufficienti, manchi la certezza della pena e si criticano le attenuanti. Questo tipo di comunicazione, in realtà, disinforma perchè io ad esempio ho visto arrivare in prigione persone dopo 10/15 anni dal momento in cui avevano commesso il reato e che, nel frattempo, avevano cambiato vita. Mi occupo, inoltre, di “Convict criminology”: si tratta di un nuovo approccio che intreccia strumenti teorici con l’esperienza di vita detentiva e ho svolto la mia ricerca etnografica sul lavoro in carcere. Questo può essere utile, ma può far emergere anche aspetti di sfruttamento.
Per capire, quindi, la realtà effettiva bisogna fare esperienza dall’interno e io ho potuto farla prima come detenuto, poi come attivista e ora come ricercatore.
Valerio Pascali
Associazione Antigone-Emilia Romagna
In Italia, a differenza degli Stati Uniti, ho trovato difficoltà a svolgere le ricerche a causa della chiusura delle amministrazioni penitenziarie che vogliono rimanere tali. Per poter approfondire la situazione nelle nostre prigioni si deve far riferimento ai report garantiti dalle associazioni preposte; difficile, per il ricercatore, per il sociologo, entrarvi a causa della diffidenza nei confronti della ricerca sociale.
Ricordiamo che per Goffman il carcere è un’istituzione totale, quella in cui un gruppo di persone è tagliato fuori dalla società con una rottura delle barriere che separano i diversi aspetti della Vita perchè questi si svolgono nello stesso luogo, a stretto contatto con gli altri, a ritmi stabiliti, con attività forzate. Questo induce alla spersonalizzazione dell’individuo: il Sè dei detenuti è sottoposto a continue degradazioni.
Il carcere è rappresentativo dell’intera società per il multiculturalismo, per le differenze di comportamenti, di età, dei problemi psicologici dei detenuti e non è detto, quindi, che il pluralismo sia sempre positivo.
Si deve, inoltre, guardare ad ogni istituto come a un micro istituto sociale all’interno della comunità più grande all’interno del quale il detenuto modifica la sua personalità con un adattamento progressivo alla comunità carceraria che culmina con l’identificazione totale con l’ambiente, tanto da non riuscire poi più a reinserirsi in un altro tipo di società. E questo è contrario all’obiettivo delle misure riabilitative.
Dopo il caso Torregiani, con la sentenza-pilota della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, sono state proposte alcune iniziative volte a umanizzare alcune forme di detenzione e poi: meccanismi deflattivi (apparentemente stabili), sezioni specifiche per reati specifici, carceri modello a vocazione trattamentale…
Dal 2013 è stata aperta anche la sorveglianza dinamica (celle aperte durante il giorno con videosorveglianza), sono state inserite diverse figure professionali a sostegno dei detenuti. Però i tratti innovativi si basano NON su norme legislative, ma dall’amministrazione penitenziaria, per cui risultano deboli e questo è un problema perchè lo spazio e il tempo definiscono la quotidianità dei reclusi e servono per un loro progressivo avvicinamento all’uscita dal carcere, momento molto delicato della loro vita.
Il miglioramento, infine, è ancora insufficiente anche per la capienza degli istituti, per le celle troppo piccole, per la mancanza di igiene.
Antonio Ianniello
Garante del Comune di Bologna
La prerogativa del garante riguarda la vigilanza dei luoghi che privano della libertà personale: delle carceri per minori, per adulti, delle camere di sicurezza e delle Rems Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), dopo il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari.
Spesso le carceri vengono ubicate alla periferia delle città, in spazi marginali e questo ha allontanato la presa di coscienza di quella che è la tutela dei diritti dei detenuti. Il garante deve avere, invece, questa priorità.
Nel 2009 la figura del garante viene consacrata a livello legislativo con la possibilità di effettuare colloqui riservati con la popolazione carceraria, senza limitazioni numeriche e senza previa autorizzazione. E questo è positivo per la raccolta dei dati necessaria alle narrazioni dall’interno, come si diceva prima, e per approntare istanze di miglioramento. Bisogna, infatti, ricordare che il garante non ha poteri autoritativi, ma verifica le condizioni e le raccoglie le singole storie. Se svolto in maniera costante e corretta, il lavoro del garante può essere importante e utile.