“Stay human. Africa”. H&M, moda al massimo e salari al minimo
di Veronica Tedeschi
H&M, una delle marche più famose che possiamo trovare in tutti i centri commerciale e indosso ad adolescenti e giovani di ogni età.
Le commesse della catena H&M sono sottopagate, sfruttate, costrette a lavorare in negozi senza finestre; il loro guadagno si aggira intorno ad 1,50 euro l’ora, non hanno pause né diritti.
No, non è la realtà. O, per meglio dire, non è la realtà occidentale. La stessa H&M, la cui base operativa è situata in Etiopia, ha operai e operaie tra i meno pagati al mondo. Il brand citato, insieme ad altri grandi marche, viene ripreso in uno studio effettuato da un centro americano che monitora il rispetto dei diritti umani nel lavoro.
L’Etiopia, il secondo paese più popoloso dell’Africa, negli ultimi anni ha visto sempre di più l’aumento di gravi violazioni di diritti umani come torture e maltrattamenti nei confronti di detenuti e un progressivo appiattimento della libertà d’espressione, ed ora, a tutto questo, aggiunge le violazioni legate ai diritti dei lavoratori.
Le motivazioni del Governo sono quelle di voler attrarre investimenti stranieri per creare il “Made in Etiopia”, spingendo ad avere livelli salariali di base inferiori a quelli di qualunque altro Paese.
Al momento i dipendenti etiopi lavorano per meno di un terzo degli stipendi del Bangladesh, circa 26 dollari al mese, cifra che non permette ai lavoratori di garantirsi vitto, alloggio e mezzi di trasporto dignitosi.
La volontà di un Governo di far girare la propria economia aumentando gli export che, però, va a discapito dei propri cittadini e non tiene in considerazione l’eventualità che questi ultimi possano stancarsi e ribellarsi.
La speranza è quella di far arrivare le esportazioni a 30 miliardi (dai 145 milioni di dollari l’anno attuali), un obiettivo irrealistico soprattutto considerata la non motivazione dei lavoratori che, con stipendi così bassi, più volte si sono ritrovati per strada a manifestare o dimessi dopo pochi giorni. Il non avere continuità sul lavoro e la non motivazione di tutti porta sicuramente ad un’inversione di rotta che quasi sicuramente non farà aumentare l’export.
Secondo stime rilanciate dalla stampa internazionale, in Cina gli operai tessili guadagnano in media circa 340 dollari al mese. In Kenya la paga non supera invece i 207 dollari ma resta comunque otto volte più elevata rispetto ai livelli etiopi sopra citati.
Numerose inchieste stanno seguendo questa importante violazione dei diritti umani. L’Occidente che acquista maglie e pantaloncini, ovviamente, non si accorge della gravità di questa situazione ma è giusto che l’informazione su come queste persone siano costrette a lavorare giri il più possibile.
Infine, anche l’organizzazione per i diritti dei lavoratori Workers rights consortium (Wrc), denuncia che i lavoratori che fabbricano abiti per la compagnia statunitense Phillips-Van Heusen Corporation (Pvh) – che produce abiti per marchi come Tommy Hilfiger e Calvin Klein – sono sottoposti ad abusi e sottopagati.
Lo scopo delle parole di questo articolo è una semplice denuncia sociale, per far sì che prima di entrare in una grande catena di abbigliamento vi poniate due domande. Il non acquisto del capo che avete in mano può cambiare la vita di una persona, dall’altra parte del mondo.