Ergastolo ed abbreviato
Di Alessia Sorgato (avvocato)
Lo scorso 12 aprile 2019 è stata approvata la legge n. 33 che impedisce di chiedere il rito abbreviato agli accusati di un delitto per cui prevista la pena dell’ergastolo.
La Novella è stata annunciata – forse a torto – nel solco di una politica, anche legislativa, di stampo apparentemente più rigoroso, ed ha incontrato reazioni svariate a seconda della provenienza: fortemente critico il mondo dell’avvocatura, più o meno favorevole l’opinione pubblica.
Il divario, a modesto parer mio, dipende non tanto dalla coloritura partitica della legge (peraltro, non nuova nel panorama italiano) quanto dall’estremo allarme sociale destato dai delitti astrattamente puniti con la sanzione più afflittiva: l’ergastolo infatti è previsto, tra gli altri, per strage, omicidio e sequestro di persona aggravati.
Il rito abbreviato, dal canto suo, è stato introdotto con la riforma del codice di procedura penale del 1988 e consente la definizione del processo “allo stato degli atti” presenti nel fascicolo del giudice per l’udienza preliminare quindi, di fatto, sulle risultanze delle indagini e sugli eventuali apporti delle difese (anche della vittima, quindi).
La sua premialità, ossia lo sconto di pena di un terzo, va messa in correlazione col notevole risparmio di tempo e di risorse che tale scelta comporta: sarà sufficiente infatti un giudice ed il suo cancelliere contro gli otto componenti della Corte d’Assise – due togati e sei laici – più tutti i giudici popolari supplenti e, di prassi, alla decisione si arriverà in una, massimo due o tre udienze.
Il rapporto tra abbreviato ed ergastolo quindi è matematico: qualora l’imputato opti per questo rito, in caso di condanna non gli verrà comminata la pena perpetua, ma la reclusione per trent’anni (almeno in linea teorica perché, come vedremo questo è il primo punto su cui si sono registrate le alterne vicende della norma).
Ma è soprattutto un rapporto a singhiozzo, scandito da numerosi rimaneggiamenti sia ad opera del legislatore che della Corte Costituzionale. All’inizio, infatti, per accedere al rito abbreviato era necessario il consenso del Pubblico Ministero, elemento questo su cui obiettivamente si poteva lavorare, per esempio subordinandolo a qualche forma di risarcimento o restituzione a favore della vittima o, peggio, di chi restava a piangerla.
Nel 1991 fu escluso per i reati puniti con l’ergastolo, e questo proprio in virtù della critica da parte della Consulta alla sostituzione automatica con la pena a trent’anni. Anche allora si aprirono i fronti del dibattito, diviso tra chi optava per la possibilità di procedere allo stato degli atti, salvo poi non concedere sconti di pena e chi invece stava a favore della inammissibilità tout court.
Nel 1999 con la legge c.d. Carotti le cose sono tornate ab origine: abbreviato ammesso ed ergastolo convertito in trent’anni di reclusione.
Vent’anni dopo, il nuovo revirement, con automatica esclusione del rito, salvo il recupero degli sconti di pena se, a conclusione dell’udienza preliminare o del successivo dibattimento, emerga che il delitto commesso non merita ergastolo ma una pena inferiore (per fornire un esempio banale, se si scopra che il soggetto sequestrato non è deceduto, ma è ancora in vita).
Personalmente prevedo nuove questioni di legittimità costituzionale ed il fatto che non se ne registrino ancora dipende solo dal fattore temporale: entrata in vigore il 20 aprile 2019, la legge si applica solo a fatti commessi successivamente a tale data, il che comporta che mentre si scrive questo articolo (giugno 2019) nessuna indagine per delitti così efferati può essere stata conclusa ed approdata in udienza preliminare (sede in cui presumibilmente verranno sollevate le eccezioni).
Alla base del rischio che questa norma venga nuovamente travolta ci sono, anzitutto, quasi novant’anni di giurisprudenza sull’art. 3 della Costituzione, dedicato al principio di eguaglianza, così efficacemente riassunto in qualsiasi aula giudiziaria con la frase “La legge è uguale per tutti”.
E se di primo acchito può sembrare una formula di facciata, dedicata alla parità di diritti che vanno riconosciuti ad accusati abbienti come ai poveri, ai cittadini come agli stranieri, e così via, precisandola nel senso che qui ci interessa sta a significare una cosa differente, ossia che tutti gli imputati, qualsiasi sia il reato di cui devono rispondere, devono accedere alla Giustizia alle medesime condizioni.
Questo mi pare il vero vulnus della questione.
Trovo assolutamente marginale il discorso del risparmio di tempo e del risparmio di denaro perché di fronte alla morte (perché di questo stiamo parlando) nessuno può permettersi di risparmiare o risparmiarsi: quello che i cittadini chiedono è giustizia, equità, riparazione.
Le statistiche sull’incidenza del rito abbreviato proprio in casi di omicidio (che pare essere molto alta), che la nuova legge sbaraglierebbe a favore di lunghi dibattimenti con testimoni e magari periti e quant’altro, si spiegano non tanto con la furbesca attitudine dell’imputato a cercare di “sfangarla” con una pena più breve. Questo è quello che si è fatto credere alla gente. Di fatto stiamo parlando della differenza (non così marcata) tra un “fine pena mai” e trent’anni di carcere; tra un ergastolo con ed un ergastolo senza isolamento diurno. Non ci passano decine di anni di carcere in meno.
Noi operatori del diritto conosciamo una realtà ben diversa, che non si limita ai reati più gravi, ma che costituisce la regola generale per qualsiasi penalista. L’abbreviato è il rito dei “molto colpevoli” o dei “molto innocenti”. In caso di “tanta prova”, esattamente come in caso di “poca prova”, perché rischiare con un processo ordinario, dove qualsiasi testimone convocato di persona potrebbe aggravare la situazione?
Si chiudono i giochi con quel che c’è nel fascicolo all’udienza preliminare: se l’imputato è spacciato, tanto vale che abbia uno sconto di pena. Se contro di lui si è raccolto poco, allora c’è caso che il giudice lo assolva (molto più raro, infatti, che un G.u.p. pronunci sentenza di non luogo a procedere).
All’allarme sociale destato da questi gravissimi delitti (si pensi ai femminicidi, che hanno ispirato anche la sottoscritta a formulare proposte di legge che attenuassero l’innegabile scotto pagato dai famigliari della vittima) e, soprattutto, al senso di ingiustizia che aleggia ormai nel nostro Paese, si può rispondere in modo molto più efficace.
Ma fino a quando il legislatore non ascolterà chi ha proposte davvero concrete da offrire, lavoreremo con leggi fatte di elastico, oggi allungatissime, domani rotte.