La dottrina della “Responsabilità di Proteggere”: tra Diritto e Politica
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Un Milestone e un’Incertezza
di Nicole Fraccaroli
Uno degli sviluppi più importanti della politica mondiale nell’ultimo decennio è stata la diffusione delle idee gemelle secondo le quali la sovranità dello Stato derivi da responsabilità, interne e internazionali, e che esista una responsabilità globale per proteggere le persone minacciate da crimini di atrocità di massa. Il rapporto del 2001 della Commissione Internazionale per l’Intervento e la Sovranità Statale (ICISS) intitolato “La responsabilità di proteggere” (RTP) ha messo queste idee in circolazione attiva e le risoluzioni delle Nazioni Unite (ONU) nel 2005, in occasione del sessantesimo anniversario dell’istituzione delle Nazioni Unite, hanno dato alla dottrina ulteriore sostanza. Infatti, in base al Documento Finale del 2005, lo Stato ha la principale responsabilità per la protezione delle popolazioni dalle atrocità di massa come genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica; la Comunità Internazionale ha la responsabilità di assistere gli Stati nell’adempiere a questa responsabilità; la Comunità Internazionale dovrebbe usare appropriati mezzi diplomatici, umanitari e altri mezzi pacifici per proteggere le popolazioni da questi crimini. Qualora uno Stato non riesce a proteggere le sue popolazioni o è l’autore di crimini (manca di possibilità o volontà), la Comunità Internazionale deve essere preparata a prendere misure più forti, incluso l’uso collettivo della forza attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Nondimeno, la dottrina rimane sotto-teorizzata e debolmente correlata agli attuali corpi teorici interessati alla natura e ai fondamenti dell’ordine politico e internazionale.
Da una parte, una dottrina che potrebbe assumere la forma di un principio in evoluzione per modellare il diritto internazionale; d’altra parte, le sue implicazioni per quanto riguarda la sua adeguatezza e la legittimità degli Stati sono state continuamente messe in discussione da interessi nazionali e geopolitici.
Nei seguenti passaggi distinguerò, in primo luogo, le caratteristiche legali di RTP, cercando di indagare sulla sua natura controversa e sulla possibilità di derivare sviluppi futuri. In secondo luogo, analizzerò alcune minacce che non consentono alla dottrina di funzionare come uno strumento adeguato del “never again” (mai più crimini internazionali).
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato il documento finale del 2005 che fa riferimento alla RTP attraverso una risoluzione, e quest’ultima riflette una raccomandazione non vincolante agli Stati. Anche se non giuridicamente vincolante, una risoluzione dell’Assemblea Generale include dichiarazioni normative che possono portare allo sviluppo di trattati internazionali, concentrandosi sui principi per gli accordi futuri. Leggendo i paragrafi del documento RTP, è evidente che la cornice del possibile contenuto giuridico deriva dai riferimenti agli obblighi internazionali esistenti. In realtà, il rapporto del 2009 “Implementare la responsabilità di proteggere”, afferma che le disposizioni fondanti della dottrina sono “strettamente integrate nel diritto internazionale consuetudinario e basate su precedenti trattati”.
Di solito viene percepita come pericolosa la codificazione di un’eccezione legittimata umanitaria al divieto relativo all’uso della forza, che richiede agli Stati di fare uso di giustificazioni umanitarie per atti militari. Ci sono due aspetti principali che indeboliscono la forza legale dell’RTP: non è stato trovato alcun accordo sui criteri codificati per l’intervento, e questo lascia aperto l’uso dei parametri della forza alla determinazione politica. Un altro aspetto limitativo è quello che riguarda l’assenza, in qualsiasi documento RTP, della questione relativa alle conseguenze nel caso in cui la comunità internazionale non agisca. Il documento finale non esprime il dovere di agire, dimostrato dall’azione “caso per caso” su cui si fonda la dottrina.
Vorrei sottolineare che, dal momento in cui la responsabilità di proteggere da genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica è radicata nella legge esistente, la sua violazione dovrebbe scatenare reazioni simili a quelle che si verificano per le violazioni dello jus cogens; in conformità con gli obblighi per lo Stato invischiato nei crimini di fermarsi, e per gli altri Stati a cooperare per porre fine a tali violazioni. L’incertezza legata alle conseguenze di non conformità, lascia dubbi sul fatto che l’RTP sia una hard norm o meno. Ne consegue che l’RTP è ancora in una fase precoce del suo percorso normativo. Se le pratiche degli Stati fossero fondate su un continuum di azioni dirette a prevenire e fermare le atrocità di massa, e si creerebbero le opinioni giuridiche, l’RTP potrebbe infine emergere come norma nel diritto internazionale consuetudinario. Ciò significa che l’implementazione farebbe una sostanziale differenza.
Durante il discorso pronunciato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dal primo ministro canadese Paul Martin nel settembre 2004, Martin ha sottolineato che “la responsabilità di proteggere non è una licenza per l’intervento; è un garante internazionale della responsabilità politica “. Martin ha chiesto al Consiglio di sicurezza di “stabilire nuove soglie per quando la comunità internazionale giudicherà che le popolazioni civili affrontano minacce estreme”. Il ruolo dell’RTP incluso nel Documento del Vertice mondiale del 2005 è stato deliberatamente limitato: la riaffermazione dell’esclusività del processo decisionale del Consiglio di Sicurezza dell’ONU; l’uso di un linguaggio non impegnativo come “caso per caso” e la sostituzione della soglia ICISS di “popolazione gravemente danneggiata” con “genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità”.
Poiché i trattati sui diritti umani non avevano creato un vero obbligo legale per la comunità internazionale e i suoi Stati membri di garantire la protezione dei diritti umani; l’adozione della RTP è stata una via di mezzo tra stabilire un vero obbligo di intervento e uno status quo normativo. Tuttavia, quando l’RTP comporta l’uso della forza per proteggere le popolazioni civili, ha dato prova di essere nient’altro che uno strumento di uso limitato. Gli Stati stessi, le loro rivendicazioni e interessi sono rimasti il fondamento del sistema internazionale.
Il Vertice del 2005 sembrava rappresentare un’approvazione globale della dottrina; ma negli anni seguenti, le riserve sono state espresse da molti Stati. Quelli influenti non occidentali, come la Cina, il Brasile, l’India, la Russia e il Sudafrica, tra gli altri, hanno anche espresso preoccupazioni sul modo in cui l’agenda dell’RTP è stata dominata dai centri di potere liberali. Alcune di queste riserve riflettono le tensioni relative all’ordine internazionale e alla relazione tra sovranità e giustizia. L’idea di un cambiamento fondamentale nella natura della sovranità, che è associata all’idea di RTP, non è accettata da molti Stati. Ci sono in realtà diversi sforzi espliciti nel cercare di plasmare e sviluppare una visione diversa dell’RTP. La proposta “Responsibility While Protecting” del governo brasiliano del 2011 ha promosso una visione più cauta dell’RTP. Ha dimostrato la sensazione che gli accordi esistenti non contengano le necessarie garanzie contro l’abuso di potere nel contesto dell’RTP. Mentre la nozione di “responsabilità” supportata dalla Cina rifletteva una visione più conservatrice, sottolineando l’importanza della sovranità statale, del non intervento e del rispetto delle autorità nazionali. Allo stesso tempo, riconosco che all’interno dell’RTP ci sono caratteristiche che rafforzano e attirano una condotta arbitraria degli Stati, promuovendo una visione dell’RTP come una dottrina pervasa da interessi interni.
La pratica mostra difficoltà nel trovare uomini e mezzi necessari per l’intervento sotto l’ONU, dal momento che non è mai stata data alcuna azione all’Articolo 43 e ai seguiti della Carta delle Nazioni Unite, né agli accordi per la formazione dell’esercito ONU. Pertanto, le Nazioni Unite non possiedono strumenti disponibili immediatamente, ma devono sempre essere messi a disposizione dagli altri Stati membri.
Come Edward Luck ha dichiarato “L’ RTP non è specifico. È un principio che non include sanzioni o strategie specifiche e dovrebbe adattarsi a ogni singolo caso. Poiché la RTP riguarda le opzioni, le alternative alle soluzioni, dobbiamo essere aperti a nuove idee e prendere singolarmente caso per caso.” In realtà, un altro limite prudenziale che vorrei sottolineare è quello espresso nel paragrafo 139 del documento finale del 2005: ” … siamo pronti a intraprendere azioni collettive … sulla base della logica: caso per caso “. Questa logica di azione è particolarmente visibile in alcuni casi studio.
Primo tra questi, il caso libico. Nel marzo 2011, il dittatore libico Gheddafi ha usato la forza mortale contro manifestanti pacifici e ha minacciato di non mostrare pietà agli abitanti ribelli delle città. I conflitti hanno portato a gravi violazioni dei diritti umani, cosicché il Consiglio di Sicurezza ha deciso di adottare all’unanimità la risoluzione 1970, che prevedeva l’adozione delle misure previste dall’articolo 41 della Carta delle Nazioni Unite. Ha esortato le autorità nazionali ad esercitare la propria responsabilità nel proteggere la popolazione e i diritti umani. Questa risoluzione non era stata rispettata e il Consiglio di Sicurezza ha risposto adottando la risoluzione 1973, che prevedeva due autorizzazioni parallele per usare la forza, la prima delle quali era molto più ampia della seconda. Quest’ultima risoluzione non è in grado di dichiarare che uno qualsiasi dei reati identificati dal documento finale sull’RTP fosse effettivamente in atto. È coerente con l’RTP nella misura in cui autorizza l’uso della forza a fini dei diritti umani; ma in termini di sviluppo dell’RTP, questa risoluzione dimostra che il concetto è diventato parte del contesto delle deliberazioni del Consiglio di Sicurezza.
Simile ma diverso è il caso del non intervento in Siria, dove la situazione è diventata drammatica nel 2011 con il conflitto civile tra il presidente Assad ed i ribelli. In questa circostanza, nessun intervento umanitario o militare era stato intrapreso sulla base della dottrina della responsabilità di proteggere. Dal mio punto di vista, le differenze con il caso libico che ha portato al non intervento, sono le seguenti: il controllo di Assad sullo Stato; il ruolo strategico svolto dalla Siria nel Medio Oriente e gli alleati che sostengono il regime come la Russia e la Cina che hanno minacciato l’uso del veto.
È evidente che gli interessi strategici e geopolitici influenzano gli interventi della Comunità Internazionale, miope davanti alle violazioni sistematiche dei diritti umani.
Gli interessi interni sono destinati a crescere, e se non verrà dato abbastanza spazio alla consapevolezza, al dialogo costruttivo, il gusto politico all’interno dell’RTP prevarrà. Ciò significa che occorre impegnarsi a fondo nella sfida operativo-politico-istituzionale e concettuale che interessa l’RTP.
Vent’anni fa non c’era alcuna Responsabilità di Proteggere; oggi tra rivendicazioni legali e politiche ha ottenuto consensi. Cosa si può fare nel corso dei prossimi anni?
A causa della guerra russo-ucraina in corso, è evidente che le sfide sono a più livelli. A livello concettuale la sfida può apparire accademismo inutile, ma io penso il contrario, in considerazione del fatto che lo stesso Putin, laureato in diritto internazionale, ha parlato ripetutamente di denazificata l’Ucraina, del suo non essere nemmeno uno stato – affermazioni da cui pare evincersi un disaccordo sui fatti, persino su cosa si intenda per stato; a certe affermazioni sarebbe forse rispondere nel merito, chiedere per ottenere meno disaccordo sui termini, esplicitamente, … With candour perhaps; e anche in considerazione del fatto che l’ingresso accelerato dell’Ucraina in Europa ora quasi scontato, può rivelarsi presto un pericoloso boomerang e indurre una escalation della violenza. Reiterare una richiesta di tregua, come sarebbe giusto di giustifica anche per un clamoroso misunderstanding concettuale. Una tregua, oltre che a diminuire i danni, sarebbe necessaria a modificare e migliorare in dialogo tra ONU e parti belligeranti criteri e la condivisione dei modi di prevenire, reagire, ricostruire gli effetti terribili di violazioni. della sovranità degli Stati in ogni luogo del pianeta. Una maggiore trasparency sugli interessi geopolitici degli Stati coinvolti andrebbe poi ascritto come criterio per modulare il diritto di intervento, cosiddetto, ambiguamente e scorrettamente (cfr Roberto Toscano, 2006) umanitario. Grazie