Che cosa succede al processo contro Mimmo Lucano? La verità di Lucano
di Giovanna Procacci (da pressenza.com)
L’udienza del 12 novembre a Locri ha avuto un carattere diverso dal solito: è stata un’udienza breve che ha visto solo le dichiarazioni spontanee di Mimmo Lucano. Rispetto a luglio, quando aveva tenuto altre dichiarazioni spontanee, il processo si è ormai addentrato nei temi del dibattimento; c’era dunque una certa attesa per capire come Lucano avrebbe impostato il suo “contributo alla ricostruzione della verità”, sono parole sue, a far luce cioè sulle imputazioni di reato che gli vengono mosse.
È fuor di dubbio che la verità di Lucano sia parte integrante del processo, ancor più in un processo politico dove, come abbiamo più volte avuto occasione di constatare, i fatti in sé sono spesso confusi e sfumati, si prestano a molte letture, tutte fragili: scorrettezze di tipo amministrativo, cortocircuito di regolamenti burocratici, spregiudicatezza nel perseguire soluzioni dei mille problemi che la politica di accoglienza e integrazione lascia irrisolti, oppure reati penali? E dietro questa fragilità abbiamo visto affiorare regolarmente quegli “ideali di umanità” di Lucano, cui spesso è ricorsa l’accusa stessa per descrivere il movente del presunto dolo, in mancanza di prove dei vantaggi che ne avrebbe tratto – con tutta l’ambiguità di ideali che vengono trattati come movente, appunto. Ai fini del monitoraggio di cittadinanza che stiamo portando avanti sul processo di Locri, queste dichiarazioni sono interessanti in quanto Lucano ha preso il toro per le corna, ha voluto spiegare proprio questi suoi ideali e come abbia in tutti questi anni orientato la sua azione a Riace per tradurli in pratiche concrete; per questo pensiamo che valga la pena di farle conoscere e di ragionarci su a caldo, senza aspettare le prossime udienze che riprenderanno la routine dell’esame dei documenti prodotti dall’accusa.
Le dichiarazioni di Lucano hanno toccato tre aspetti cruciali. Innanzitutto, il ruolo dello Stato in tutta la vicenda di Riace. Il Comune di Riace subiva continue pressioni da parte della Prefettura e del Ministero perché ospitasse richiedenti asilo in gran numero, per risolvere situazioni difficili soprattutto negli anni dell’emergenza. Già nel 2008, quando al Viminale c’era Maroni, il prefetto Morcone aveva spiegato a Lucano, alla presenza di Ilario Ammendolia sindaco di Caulonia, che il ministro voleva evitare l’arrivo di troppi richiedenti asilo al nord; di qui, l’insistenza a collocare i richiedenti asilo al sud e in particolare a Riace, che li accettava. E li accettava, dice Lucano, per coincidenza di interessi: perché la missione che il Comune si era dato era quella dell’accoglienza e dello sviluppo locale che le politiche d’accoglienza potevano mettere in moto.
Era già emerso nel dibattimento che in Prefettura godeva dell’appellativo di “San Lucano”. Naturalmente, questo comportava inevitabili scorciatoie: se la Prefettura chiedeva di accogliere 300 o 500 persone e un paio di giorni dopo sulla piazza di Riace già arrivavano i pullman carichi, come avrebbe potuto il Comune bandire gare pubbliche per l’assegnazione dei servizi? Per questo a Riace erano nate varie associazioni e cooperative, per riuscire a fare immediatamente fronte alla necessità di ampliare i servizi. Ora però, nel processo, queste assegnazioni dirette sono diventate per l’appunto imputazioni di reato, sebbene non ci fosse alternativa possibile. “Se invece di accettare i rifugiati che mi mandavano, avessi detto di no, oggi non sarei qui”, osserva Lucano. Riace veniva usata per risolvere l’emergenza, ma adesso viene accusata di averla risolta “in modo emergenziale”; insomma, l’emergenza vale per lo Stato, ma non per chi concretamente si impegna ad accogliere le persone che lo Stato gli affida perché non sa dove metterle.
Questo meccanismo, di uno Stato che chiede di accogliere e poi abbandona chi accoglie è, dice Lucano, un aspetto strutturale. Si chiede di fare non solo accoglienza, ma anche integrazione; però lo Stato non dà gli strumenti, si limita a darti dei fondi con cui devi costruire l’integrazione a tuo rischio e pericolo. Intanto però mantiene tendopoli come quella di S. Ferdinando, dove le persone sono costrette a vivere in condizioni disumane, e spesso purtroppo muoiono ; eppure nessuno chiede se c’è l’agibilità a S. Ferdinando e nessuno risponde di quei morti. “A Riace non è morto nessuno, anzi siamo sotto accusa per il motivo opposto, per aver fatto il possibile e l’impossibile per accogliere tutti”. A Riace con gli stessi fondi pubblici sono state accolte molte più persone; se però c’è qualcosa che non va, lo Stato taglia i fondi. “Prima mi chiamate e poi mi abbandonate, ma 100 bambini e 250 adulti non si possono abbandonare così”. É per questo che è stato chiuso il Cas; perché è il Comune, e non la Prefettura come sostiene l’accusa, che ha chiuso il Cas di Riace.
Secondo aspetto, le attività di integrazione messe in campo a Riace. Le persone, che fossero incluse nel Cas o nello Sprar, sono state trattate tutte nello stesso modo, hanno avuto gli stessi servizi; non era giusto differenziarle in funzione del progetto di cui facevano parte. Nelle riunioni dell’apposito Tavolo organizzato dall’ANCI, cui partecipava da anni, Lucano non aveva mai fatto mistero del fatto che in un paese come Riace vitto e alloggio costassero poco; ma i fondi pubblici sono dati per fare anche l’integrazione, che invece non è affatto facile in un contesto come quello di Riace, dove il lavoro manca per tutti. In quel Tavolo, Lucano parlava delle criticità del sistema Sprar, che è pur sempre un sistema perfettibile ed infatti è stato più volte modificato; va fatta accoglienza integrata, ma sei tu che devi capire come concretamente integrarli in relazione al contesto specifico in cui agisci.
Ebbene, in un contesto come quello di Riace, impoverito, destinato all’abbandono, sotto il peso della criminalità organizzata, fare solo l’accoglienza, utilizzare cioè i fondi pubblici solo a vantaggio dei richiedenti asilo, avrebbe significato innescare una guerra fra poveri; era indispensabile unire i destini dei riacesi e dei rifugiati, immaginare uno sviluppo della comunità che coinvolgesse entrambi, e a questo potevano contribuire le attività e i servizi per l’integrazione. L’integrazione a Riace è diventata così importante proprio perché è stata vista come la chiave di volta per costruire un’economia collettiva che si opponesse all’abbandono, alle ingerenze mafiose e tenesse insieme tutta la comunità. Le botteghe, la fattoria didattica, il frantoio di comunità, il turismo solidale, gli eventi culturali, le borse lavoro sono stati tutti strumenti di integrazione dei rifugiati, certo, ma anche di costruzione di una comunità coesa. La scuola, l’acqua del Comune, la raccolta differenziata, l’ambulatorio medico gratuito, sono stati tutti servizi di cui hanno beneficiato in primis gli abitanti di Riace, che così hanno potuto toccare con mano quanto l’arrivo dei nuovi abitanti poteva essere un vantaggio per tutti.
Prendiamo l’esempio del frantoio, che proprio in questo periodo sta producendo l’olio di Riace. Oggi il frantoio dà lavoro a 15 operai immigrati e non, tutti con contratti regolari, paghe e orari sindacali; è un esempio di opportunità lavorative costruite per tutti, in un contesto il cui il lavoro non c’è. È un frantoio di comunità, non è proprietà di nessuno proprio perché è stato costruito coi fondi pubblici dell’integrazione.
Ma in questo processo le attività di integrazione sono diventate imputazioni di reato: distrazione di fondi, peculato, truffa ecc. Lo Stato, che non ti dà gli strumenti per l’integrazione, quando costruisci le condizioni per integrare ti contesta reati penali. Anche i lungo permanenti, di cui tanto si è discusso nel processo, sono rimasti a Riace per ragioni umanitarie; si potevano abbandonare a se stessi anche se l’integrazione non era stata raggiunta? Il termine massimo di 6 mesi è stato introdotto a un certo punto nelle linee guida dello Sprar, non è una legge dello Stato. Mettere in discussione quelle linee guida non significa trasgredire la legge, ma evidenziare delle criticità, che peraltro lo Sprar riconosce se prevede che si possa richiedere una deroga. A Riace il Comune si è fatto carico anche di loro. Ma come mai a Riace si sono fatte tante cose con quei 35 euro? Oggi, nel processo, si dice che tutto quello che restava dopo vitto e alloggio avrebbe dovuto essere restituito; ma senza quelle risorse, come si sarebbe potuta realizzare l’integrazione? “Aver a che fare con 500 persone in più e restare fedele a umanità e accoglienza: questo è stato il messaggio di Riace”. E la sfida che Riace ha lanciato, sennò perché, con tante realtà di accoglienza e integrazione in Italia, in tanti sarebbero venuti a vedere proprio Riace? Ma quelle pratiche virtuose di sviluppo locale, che sono state considerate delle eccellenze, adesso qui sono trattate come reati penali.
Infine, terzo aspetto, l’interesse politico. Lucano ha voluto contestualizzare la storia del “modello Riace” dal punto di vista della sua storia politica, degli ideali di giustizia e di solidarietà da cui si è sempre sentito mobilitato, della voglia di contribuire al riscatto della sua terra dall’abbandono e dallo strapotere della criminalità organizzata. Ideali politici, certo, ma capaci di parlare molte lingue, come per esempio quella di un cattolicesimo evangelico che si sente vicino agli ultimi. Nel processo, come abbiamo visto finora, questi ideali rappresentano proprio il cuore dell’attacco giudiziario; nel discutere di ogni capo d’imputazione, l’accusa stessa ripete come un mantra che il movente non è economico, non essendo emerso alcun elemento di prova di un vantaggio economico che Lucano avrebbe mai tratto dalla sua azione a Riace, ma appunto politico.
Per questo è interessante sentire Lucano che rivendica la sua ispirazione politica in termini di ideali e valori. La procura in realtà declina il cosiddetto “movente politico” in termini di caccia al consenso elettorale: Lucano avrebbe cercato di assicurarsi i voti garantiti dalle varie associazioni. Fuori da ogni contesto, però, perché ormai Lucano non avrebbe più potuto ricandidarsi a sindaco, essendo nel pieno del suo terzo ed ultimo mandato, né si è mai candidato a nessun’altra competizione elettorale. Racconta le pressioni subite da tanti fronti per candidarsi alle elezioni europee, ma ha tenuto duro e non si è candidato, per evitare che una sua candidatura gettasse una luce diversa sul suo impegno di vent’anni a Riace, che si potesse dire insomma: ecco, ha fatto tutto questo solo per arrivare lì. Ma anche perché, ha detto, non è interessato alla politica istituzionale, si sentirebbe a disagio in un contesto come quello del Parlamento Europeo. Ha citato il suo amico Pietro Bartòlo, il medico di Lampedusa che dopo trent’anni di lavoro al fronte è stato eletto parlamentare europeo, per dire che la sua idea di politica è un’altra: quello che lo interessa e lo avvince è la politica dal basso, la costruzione di una comunità, la democrazia diretta, cui ha voluto dare un contributo con la sua attività da sindaco. Da sindaco si è speso per lo sviluppo del suo paese, per affrancarlo dall’oppressione delle famiglie di ‘ndrangheta, e al tempo stesso per l’accoglienza solidale verso chi arrivava da storie di povertà, guerra e disumanità, in nome di un’ospitalità che considera uno dei valori pregnanti della cultura calabrese. Quindi sì, ha agito mosso da un interesse politico, quello di realizzare i suoi ideali; per questo si è sempre preoccupato che tutti i fondi pubblici fossero destinati a quest’opera di integrazione.
Per oltre 15 anni la storia di Riace è cresciuta, il paese è rinato, ha risolto problemi perfino nazionali, è diventato un esempio che ha ispirato altre strutture, nella regione e altrove in Italia. Poi qualcosa si è spezzato, in coincidenza con un cambiamento di paradigma nelle politiche italiane di accoglienza e integrazione, sono nate le inchieste e infine il processo. Riace, ha concluso Lucano, ha dato fastidio perché ha dimostrato che anche semplicemente da sindaco si potevano organizzare accoglienza e integrazione in un modo diverso. Ormai su questo tema si vincono o si perdono le elezioni, per questo ideali di giustizia, di rispetto dei diritti umani, vengono relegati in una sorta di pre-politica astratta che la politica “vera” non sente più il bisogno di attuare. A Riace si è voluto costruire una realtà differente, ribaltando concretamente quest’idea che gli ideali non c’entrino con la politica dei diritti.
Se riprendiamo le domande da cittadini che abbiamo sollevato seguendo le udienze precedenti, le sue dichiarazioni s’incrociano in vari passaggi ed i vari modi con quelle domande, e questo ci pare dia ancora più forza al percorso di monitoraggio che abbiamo intrapreso. Perché finalmente il processo ha trovato il suo centro: la verità di Lucano mette a nudo gli ideali trattati come reati, il rifiuto di una visione dell’integrazione tesa a risolvere i problemi senza conflitti, la criminalizzazione di un pensiero che mette al centro i diritti delle persone. In altre parole, mette a nudo il carattere politico del processo che si sta svolgendo a Locri.