“Stay human. Africa”. L’isola degli schiavi in Senegal
di Veronica Tedeschi
Il mio primo traghetto per Gorèe fu indimenticabile: lungo, caldo, faticoso…la partenza era prevista alle ore 10.00 di mattina ma, sfortunatamente, riuscii ad approdare sull’isola solo alle ore 17.00. La scelta di fare una gita in uno posti più belli e più turistici del Senegal il 15 agosto non fu saggio ma il tutto poi divenne parte del viaggio e dell’esperienza africana.
Di fronte la costa di Dakar, non molto lontano dai pochi villaggi turistici che colorano la spiaggia della capitale senegalese, si trova un’isola che dalla terra ferma già pare racchiudere storie e colori. Nell’estremo sud dell’isola si intravede un caseggiato alto con una muraglia di mattoni imponente che nasconde dietro di sé casette colorate e armoniose.
Crocevia di traffici e approdo ambitissimo delle potenze coloniali, l’isola di Gorée racchiude in sé la storia e la tragedia della tratta negriera.
Dapprima gli esploratori portoghesi, nel 1440, che vi regnarono per oltre un secolo. Dal XV al XIX secolo le principali potenze marittime si avvicendarono sull’isola, considerata un punto strategico per il commercio di merci e schiavi: olandesi, francesi, inglesi a periodi alterni, poi di nuovo i francesi definitivamente nel 1807. Gli olandesi la chiamavano «l’isola gioiosa», per le baldorie e i festini a cui si abbandonavano i marinai mentre riempivano le navi con il loro carico umano.
Mentre sull’isola e sulle navi i festini occupavano le serate degli abitanti, in una casa color rosa su due piani si ammassavano i futuri schiavi, quelli spediti in America per lavorare nelle piantagioni o nelle residenze degli europei. La port du voyage sans retour (porta del viaggio senza ritorno) che si apre sull’Oceano Atlantico conduceva verso il Brasile o i Caraibi. Milioni di persone provenienti da tutta l’Africa partirono da quest’isola con il benestare dei capo villaggio africani che, dietro lauto compenso, divennero parte di questa triste storia. Quando la nave negriera arrivava, i futuri schiavi, incatenati per la caviglie, si incamminavano verso una piccola porta che dava direttamente sul molo dove attraccavano i velieri europei.
La “Maison des Esclaves” (casa degli schiavi) è ora uno dei luoghi più turistici di tutta l’isola in cui si possono visitare le stanze dove venivano stipate queste persone, più di 30 o 40 in una sola stanza senza servizi igienici o intimità.
Oggi Gorèe è bellissima, piena di ristorantini affacciati sul porto con tavoli vista mare e una piccola spiaggia che appoggia su un pezzo di Oceano Atlantico pulitissimo, il tutto in una città in stile portoghese che sembra colorata con dei pastelli e con le strade sterrate. Il peso della storia, delle lacrime e del sangue non si sente appena sbarcati sull’isola, bisogna addentrarsi e perdersi nelle vie dell’isola per toccare i sentimenti di chi lì ha vissuto e ha ha perso la vita.
Una porta di non ritorno… da dove?
Dalla tua terra, dal tuo calore, dai sorrisi che ami.
Una porta di non ritorno…per dove?
Una porta verso l’Oceano, verso il mare che sembra infinito ma che arriva ad un punto fermo, in una terra cattiva, non accogliente, pronta a sfruttarti.
Io amo la mia terra, non voglio partire.
Io non posso decidere, io sono un pezzo di carne per gli squali.
Io ho dei sentimenti, mia madre non la rivedrò più?
Io abito qui, bianchi bastardi.
(Pezzo tratto dal diario di viaggio in questo sito pubblicato Campo di volontariato in Senegal)