Brevi lezioni sul linguaggio. Intervista a Federico Faloppa
Associazione Per i Diritti umani ha intervistato Federico Faloppa –
Lecturer nel Dipartimento di Modern Languages dell’Università di Reading (Gran Bretagna), dove insegno Storia della lingua italiana e Sociolinguistica – autore del saggio Brevi lezioni sul linguaggio, Bollati Boringhieri.
Ringraziamo molto Federico Faloppa per la sua disponibilità.
Secondo alcune fonti, nel mondo ci sarebbero oltre settemila lingue vive. In Europa le lingue parlate sarebbero quasi trecento, delle quali una trentina solo in Italia. Effettivamente, trenta lingue per l’Italia sembrano davvero tante, e molti infatti le «declasserebbero» quasi tutte a semplici dialetti. La distinzione tra lingua e dialetto è però tutt’altro che scontata, e resta comunque il fatto che la nostra penisola, come il resto del mondo, possiede una varietà linguistica sbalorditiva. Dunque, cos’è una lingua? Da dove viene questa abbondanza? In che cosa, linguisticamente, noi esseri umani siamo così diversi? E in che cosa, soprattutto, siamo simili? Queste sono solo alcune delle domande da cui prende spunto Federico Faloppa in questo libro, un vademecum per addentrarsi nei meandri della comunicazione verbale e dei suoi segreti.
di Alessandra Montesanto
La lingua è un elemento fondante dell’identità individuale e collettiva: questo può essere un fattore positivo e negativo, ad esempio in società multiculturali?
Come cerco di raccontare in Brevi lezioni sul linguaggio (Bollati Boringhieri), ci sono tanti fattori in gioco quando si parla di linguaggio (umano), e di lingue.
Intanto, c’è da considerare l’aspetto evolutivo. La nostra specie, Homo sapiens, forse ha avuto la meglio sulle altre proprio perché a un certo punto della propria evoluzione è stata capace di produrre e utilizzare un linguaggio più ricco e articolato – a partire dai suoni – in ragione di adattamenti, esattamenti, concause evolutive (ad esempio un apparato vocale fonatorio più sviluppato) e in presenza di funzioni e strutture sociali più complesse. L’acquisizione di questa nostra abilità, quella linguistica, ha certamente rappresentato un vantaggio sul piano evolutivo per la nostra specie. Diventando anche un tratto distintivo della nostra identità di esseri umani.
Sul piano individuale, l’acquisizione del linguaggio e lo sviluppo delle abilità linguistiche avviene molto presto (e con una rapidità impressionante) entro i primi anni di età. L’abilità linguistica – e più tardi metalinguistica, ovvero il modo di pensare il linguaggio e di riflettere sulle sue strutture – ci permettono non solo di stare nel mondo, ma di starci come animali estremamente sociali, creativi, e capaci di apprendere. Cominciamo a farlo già nel grembo materno, quando percepiamo alcuni elementi paralinguistici fondamentali, come ritmo, intonazione, volume della voce della madre. E poi, soprattutto, entro i primi 12-18 mesi. Quando cominciamo a parlare, il nostro cervello sa già quasi tutto ciò che ci servirà nel corso della nostra esistenza in fatto di linguaggio. Al punto che alcuni scienziati, fra cui Noam Chomsky, hanno ipotizzato l’esistenza di strutture innate, e di un Language Acquisition Device, uno ‘strumento’ che ci permetterebbe di imparare in pochi mesi le regole e le strutture che ci servono nella nostra lingua madre, ‘dimenticando’ tutte le possibili altre. Anche in questo caso, il linguaggio è parte costituente della nostra identità di individui: individui parlanti almeno una lingua madre, attraverso cui strutturiamo e descriviamo i nostri pensieri, il nostro mondo, le nostre relazioni sociali.
Sul piano sociale, le cose sono meno lineari. Intanto, non è facile stabilire che cosa sia positivo o negativo, nel rapporto tra identità e linguaggio. L’equazione una lingua = una nazione è molto recente, essendosi affermata soprattutto tra Sette e Ottocento, con la nascita degli stati nazionali in Europa. L’impero romano era molto meno monolingue di quanto si pensi, per contatto linguistico diretto e costante tra le varietà di latino parlato e le altre lingue. O basti accennare alla Repubblica di Venezia, alla varietà di lingue e di culture che era capace di accogliere, al mistilinguismo che era cifra normale delle sue relazioni commerciali e politiche. Certo, il nazionalismo ottocentesco, in Europa, ci ha convinti del fatto che una nazione dovesse avere una e una sola lingua stabile, centralizzata, delle istituzioni. Ma la realtà era ed è ben più articolata, come dimostra il lento processo di costruzione di un idioma parlato nazionale in Italia, compiutosi – forse – solo negli ultimi decenni. O come dimostra la non equivalenza, in molta parte del mondo, tra lingua e nazione, che molti stati federali (ad esempio l’India) hanno faticosamente cercato di affrontare. Il discorso è però ampio, e non voglio correre il rischio di banalizzare. Il multilinguismo è un fatto quotidiano per moltissimi abitanti della Terra, i quali infatti vedrebbero il monolinguismo come qualcosa di imposto, di innaturale. E bilinguismo e trilinguismo sono fenomeni diffusi anche nei nostri stati monolingui per statuto: possiamo parlare con la stessa competenza più lingue, se le apprendiamo naturalmente nei primi anni di vita. Eppure il plurilinguismo è stato visto fino a tempi recenti come uno svantaggio per l’apprendimento, non solo linguistico. Il dibattito è accesso, perché quando si parla di lingue si parla anche, necessariamente, di identità culturali e politiche, di appartenenze e di confini. Per questo, con Brevi lezioni sul linguaggio, ho preferito mettere l’accento su un’abilità universale, quella linguistica appunto, esaltando ciò che ci rende tutti simili e mettendo in secondo piano, per una volta, le differenze e le divisioni.
I bambini piccoli – privi ancora dell’articolazione delle parole – comunicano con il linguaggio non-verbale o para verbale. Possiamo re-imparare da loro forme di comunicazione utili alla conoscenza e alla comprensione reciproca?
La questione è complessa. Come ho anticipato, nei primi dodici mesi della loro vita, i bambini e le bambine acquisiscono già gran parte delle strutture che serviranno loro per parlare una o più lingue nel corso della loro esistenza. Ma certamente alcuni elementi non verbali o paralinguistici (intonazione, volume, prosodia) vengono già appresi nel ventre materno, e certamente i tocchi, il contatto fisico con la madre, la percezione della relazione tra movimenti (del viso, ma non solo) e provenienza del suono, gli sguardi, ecc. sono elementi fondamentali per sentire e creare empatia, senso di protezione, senso di inclusione, socialità nei primi anni di vita. Nasciamo fragili, con un cervello più piccolo di altri mammiferi (in relazione alla massa corporea), con alcune abilità poco sviluppate (ad esempio, la deambulazione, il controllo dei movimenti) e abbiamo bisogno di tempo per renderci autonomi, per sentirci sicuri nell’ambiente. Il contatto costante con la madre è quindi fondamentale, e avviene nei primi mesi con mezzi non verbali, come sappiamo. Ma poi impariamo a essere animali sociali e a relazionarci con gli altri soprattutto attraverso il linguaggio (verbale e paraverbale o non verbale). È un processo naturale e culturale insieme, al punto che i codici e le loro modalità d’uso cambiano a seconda dei sistemi culturali a cui apparteniamo (pensiamo ad esempio alla gesticolazione, un sistema di comunicazione molto comune nell’area del Mediterraneo, ma meno prominente in altre zone del mondo). Non serve tornare bambini, o re-imparare alcune modalità per capirsi meglio: anzi, più sviluppiamo il linguaggio, più abbiamo piena consapevolezza della multimodalità della nostra comunicazione (suoni, intonazione, volume, velocità di eloquio, e poi sguardo, movimenti facciali, postura, gesti, gestione del corpo nello spazio, ecc.). Né esiste un modo solo di comporre questa multimodalità: molte variabili sono culturali. Bisognerebbe forse, questo sì, conoscere lo strumento del linguaggio per poterlo usare al meglio, in modo adeguato ai contesti, con ricchezza di mezzi, con la giusta sensibilità pragmatica. Abbiamo già in dote un’abilità complessa, e straordinaria, seppur non perfetta: esserne pienamente consapevoli ci aiuterebbe a utilizzarla meglio, forse.
Lei vive e insegna nel Regno Unito: queli sono, a suo parere, le differenze tra la situazione inglese e quella italiana in termini di apertura (anche linguistica) verso altre culture?
Difficile dirlo in poche parole. Provo a dirlo con una battuta, a mo’ di provocazione. La Gran Bretagna è un paese multiculturale seppur privo di policy adeguate sul piano del multilinguismo. Si può anche non essere britannici, e si è ancora benvenuti. Ma lo spazio e le risorse per lingue che non siano l’inglese sono sempre più ridotti. A questo, negli ultimi anni, si è aggiunta la sensazione che avere un forte accento straniero in inglese – cosa frequentissima – sta diventando uno stigma sociale, in tempi di Brexit. E non è raro che ci si senta apostrofare in malo modo per non parlare un inglese britannico. Infine, l’atteggiamento prevalente nella popolazione britannica è che essendo l’inglese lingua globale, è di fatto inutile imparare altre lingue straniere. Se l’imperialismo politico è solo un lontano ricordo (con buona pace dei nostalgici dell’Impero) quello linguistico è sicuramente – e spocchiosamente – ben vivo. L’Italia ha raggiunto un’unità linguistica molto dopo aver raggiunto un’unità politica, come ci ha insegnato Tullio De Mauro. E solo oggi, forse, ha trovato nell’e-italiano, come suggerisce lo storico della lingua Giuseppe Antonelli, una varietà popolare condivisa da gran parte della popolazione. Tuttavia, la grande variabilità regionale di italiano parlato, l’uso dei dialetti, la presenza di lingue minoritarie (come il tedesco, il francese, il patois, il ladino, lo sloveno, l’arbaresh, etc.) tutelate per legge ci fa paradossalmente avere un atteggiamento più aperto verso le differenze linguistiche. Siamo un paese storicamente fondato sul multilinguismo, ma non ancora apertamente multiculturale. La sfida è oggi quella di accettare ricchezza linguistica e culturale come un insieme di correlate possibilità, e non come un intrico di problemi o, peggio, minacce.
Si è occupato, tramite le sue ricerche, di discorsi d’odio: in che modo è possibile contrastare l’hate speech?
Questa è una domanda molto ampia. Anche qui, per brevità, sono costretto a sintetizzare, e spero di non farlo a danno della chiarezza. Direi che tanto si può fare, e molto si è già cominciato a fare, a partire – per quanto mi riguarda – dalla costituzione del “Tavolo nazionale di contrasto ai discorsi d’odio”, una rete di esperti, attività e progetti che coordino per conto di Amnesty International, che molte risorse sta dedicando a quasto tema. Innanzi tutto, occorre avere una precisa consapevolezza di ciò si intende per hate speech. Non è solo un problema di definizioni (quelle attualmente in uso sono spesso parziali, lacunose, imprecise), né di quali elementi facciano parte di questo linguaggio d’odio (gli insulti, certamente, ma anche elementi testuali e retorici, l’ironia, le immagini, gli impliciti…), ma anche e soprattutto di sensibilità. A me un insulto estemporaneo come “sporco cuneese” (sono nato a Cuneo, n.d.a) può anche dar fastidio, ma non necessariamente può far male, minare la mia autostima, farmi sentire inferiore, ledere i miei diritti (ad esempio, quello di sentirmi sicuro se cammino per strada). Ma se tutti i giorni mi sentissi apostrofare come “cuneese di merda”, “bestia cuneese”, “idiota di un cuneese” potrei pure convincermi che c’è del vero in quegli assunti, che se è normale per qualcuno chiamarmi così, deve esserci una verità oggettiva in quelle parole. Voglio dire: per cominciare a contrastare davvero il linguaggio d’odio occorrerebbe sentire le persone che ne vengono colpite. Capire quali sono le conseguenze, i traumi, la violenza percepita. E poi isolare quelli che usano certe espressioni, farli sentire minoranza, vittime loro stessi del loro stesso odio. Importanti sono certo le risposte giuridiche: se un’espressione è ingiuriosa, o discriminante, o diffamante, occorre utilizzare gli strumenti che già esistono per tutelare chi ne è colpito, e per colpire chi se ne fa latore. Fondamentale è il lavoro culturale, educativo: smontare gli stereotipi che sono alla base della cosiddetta “piramide dell’odio” e che alimentano il linguaggio d’odio (gli immigrati sono infetti, quindi “sporchi immigrati”, quindi “ributtiamoli a mare”), lavorando nelle scuole, chiedendo ai chi fa informazione avere un ruolo responsabile, pretendere che nel linguaggio delle istituzioni che tutti dovrebbero rappresetare e tutelare non entrino mai certi stilemi, certe cattivissime abitudini. Necessario è capire quali sono i nessi tra hate speech e propaganda (e quindi costruzione del consenso), tra hate speech e hate crime, tra hate speech e condizioni socio-culturali di chi assume atteggiamenti d’odio sociale, tra hate speech e mentalità coloniale (ancora così diffusa in Italia come altrove), tra hate speech e sistemi di potere (a tutti i livelli, dall’ufficio alle università ai media). Urgente si sta rivelando la necessità di studiare l’hate speech attraverso la lente dell’intersezionalità (per cui si può essere bersaglio di linguaggi d’odio per diverse caratteristiche, contemporaneamente, come ad esempio donna + lesbica + attivista). Ma ancora più importante è, credo, rovesciare il paradigma che vuole la vittima isolata e l’odiatore (o meglio, chi assume ripetutamente atteggiamenti d’odio) voce univoca di un senso comune. Il linguaggio dell’odio deve tornare a essere un’eccezione – a cui rispondere su più livelli, con strategie di breve, media e lunga durata, grazie a una conoscenza profonda del fenomeno – e cessare di essere visto, e purtroppo accettato, come la regola. La regola sono e dovrebbero essere il dialogo, il confronto (anche acceso), la sfida sul piano degli argomenti e delle idee. Non l’insulto, il dileggio, la violenza, il tentativo costante di umiliare l’altro.
Cosa si sentirebbe di consigliare ai futuri giornalisti della carta stampata riguardo al modo di utilizzare le parole?
Molti strumenti sono già disponibili. L’Associazione “Carta di Roma”, ha prodotto negli anni non solo un codice deontologico, sottoscritto da gran parte dei media in Italia, ma anche ricerche e approfondimenti su buone e cattive pratiche nel giornalismo. L’Ordine dei giornalisti ha moltiplicato le giornate di formazione per contrastare fake news, linguaggio discriminante, informazione stereotipata. Esistono inoltre il “Manifesto di Venezia”, la carta per il rispetto e la parità di genere nell’informazione diffuso dal 25 novembre 2017, e una serie di raccomandazioni proposte dall’Agcom per l’informazione radio-televisiva e sulle piattaforme social. Insomma, per chi vuole capire e approfondire non mancano certo né le occasioni, né i materiali o i consigli. Tuttavia, una cosa non si può né insegnare né imparare: la capacità di ascolto, l’apertura vera verso una società plurale, e un po’ di umiltà, necessaria in tutti gli ambiti professionali. Per citare un caso recente, l’unica replica possibile alla prima pagina “Black Friday” da parte del direttore del “Corriere dello Sport” era un editoriale di scuse, senza se e senza ma. E invece, la risposta alle critiche è stata un offeso petulante “Razzisti a chi?”, un arrampicarsi sugli specchi vanesio e arrogante, che non solo non ha concesso nulla al dibattito ma ha anche peggiorato, se possibile, la posizione del giornale. Ecco, l’incapacità di mettersi nei panni degli altri, di ascoltare tutte le voci, di accettare la ricchezza della società come un dato di fatto, di aprire le redazioni a giornalisti non maschi, non autoctoni, non provenienti dallo stesso background culturale e sociale è un problema reale e diffuso nella carta stampata italiana. Ma qui non c’è raccomandazione o codice deontologico che tenga. Né si tratta solo di uso più consapevole del linguaggio. Qui si tratta invece di una rivoluzione professionale e culturale (quasi) tutta ancora da fare. Come cittadino e lettore, prima ancora che come linguista, non posso che sperare di vederne presto non dico gli esiti, ma almeno i prodromi.