“La banalità dell’hate speech”
di Matteo Vairo
Fino a poco tempo fa, dopo essermi presentato, quasi come un automatismo mi sentivo dire “Ah Matteo! Che bel nome!” . Ultimamente invece a seconda del colore della sciarpa indossata dal tifoso del momento, non ho risposte, ma solo sguardi che vorrebbero dirmi “Mi dispiace!”
Banale come inizio ma..significativo.
Significativo perché ormai sembra che tutto sia in qualche modo contaminato.. contaminato da un bisogno spasmodico di polemizzare e/o politicizzare qualsiasi pensiero venga espresso, qualsiasi tema diventa scottante che siano migranti, vaccinazioni o animali
E se quello del nome può essere un esempio banale, cercherò di raccontare un qualcosa di più..concreto.
Sono un operatore umanitario, mi occupo di vulnerabilità da più di 10 anni ed in questo lasso di tempo ho avuto modo di rapportarmi con persone fragili di qualsiasi nazionalità, ideale politico ed estrazione sociale possibile ed immaginabile.
Fino a poco tempo fa (dopo essermi presentato) non appena qualificatomi mi sentivo dire “Ce ne vorrebbero di persone come te.. tanta stima… se posso contribuire…” . Ultimamente invece a seconda del colore della sciarpa indossata dal tifoso del momento, ho sì risposte.. e che risposte: “ecco il buonista.. sei uno dei nemici della nazione.. aiuti X ma non Y.. zecca..” e queste sono le più educate.
La riconoscenza verso chi si prodiga per il prossimo penso sia umanamente comprensibile pur senza arrivare a santificare la “categoria” che rappresento, perché c’è questo falso mito che un operatore umanitario sia un “senza macchia”: nulla di più sbagliato, sono un essere umano, siamo esseri umani e come tali non assolutamente in grado di poter scagliare la prima pietra; a volte mi faccio paura da solo per le amenità che magari riesco ad abortire anche solo per rabbia, perché il primo pregiudizio è credere di non avere pregiudizi. Proprio per questo ho sempre fatto fatica a digerire questo alone di santità che mi hanno spesso appioppato e che spesso ci appioppano.
Indipendentemente da questa mia percezione, come si passa dall’essere identificato da buono a buonista?
A nemico della nazione?
E a zecca? A zecca!!
Personalmente questa de-responsabilizzazione dell’uso delle parole mi destabilizza. Mi stordisce. Mi scava.
Mi scava perché sembra non esserci più spazio per esprimersi, perché dall’altra parte c’è già qualcuno (spesso più di uno) pronto a riversarti barili di bile addosso pur sostanzialmente essendo avulso da quell’espressione.
Perché se X da Roma decide di condividere su Facebook la foto della nuova scala che ha comprato, Y da Milano e Z da Palermo si sentono quasi in diritto di palesare il loro dissenso verso quel modello/colore/posizionamento della scala con turpiloqui ed altre amenità?
Quella della scala non vuole essere una banalizzazione di questo fenomeno, ma uno spunto di riflessione su un fenomeno che molti si affrettano ad etichettare, ma che io non riesco ancora ad inquadrare. Beati anzi quelli che hanno risposte a tutto…io quando distribuirono il manicheismo mi sa che ero in bagno.
Ci si affretta ad etichettare subito tutto con fascismo, nazismo, comunismo…ma attenzione, ripetendo certe parole all’infinito non si rischia di svuotarle del loro significato primo?
Come si è arrivati ad inneggiare alla violenza, o addirittura alla morte, nei confronti chi la pensa o agisce in modo diverso?
Come è difficile dire se sia nato prima l’uovo o la gallina è molto complesso definire se l’influenza e l’impatto di Facebook e degli altri social media abbiano contribuito alla formulazione di un certo linguaggio o se invece la galassia social abbia fatto solo da megafono sociale e reso più visibile ciò che già serpeggiava all’interno della società.
Innegabile è invece il fatto che nell’ultimo decennio si è palesata un’aggressività verbale individuale ed individualizzata poco etichettabile, facile da prevedere (difficile da mediare), ma soprattutto veloce e, a seconda dei casi, sovrastrutturata, capace di fare rete, di aggregare, attraverso istinti che fuori dalla piazza virtuale magari restavano silenti.
Aggressività non ostacolate dallo stigma sociale, anzi.
Un esempio sono le istituzioni che da essere argine (o mediatori) si sono fatte spesso cassa di risonanza della cosiddetta “pancia del paese” (anche se parlerei più di intestino crasso) e delle sue espressioni più basse e bieche, al punto di modificare le proprie agende e cavalcarne l’onda per suscitare comprensione ed incrementare consenso anziché mettere in atto campagne di contrasto efficaci; anzi magari a volte donando neologismi in pasto all’arena come “PDioti..fascioleghisti…”, epiteti che hanno la presunzione di giudicare e facilmente etichettare tutta la vita passata, presente e futura, di una persona. Come non ricordare che uno dei partiti attualmente al governo è nato sostanzialmente da un “Vaffanculo!” capace di unire e raccogliere con decisamente inattesa infettività sia virtuale che reale? Questa rottura, come riporta Federico Faloppa ha creato “una liberazione prima (“Vaffanculo!”) un’abitudine poi, e infine un assuefazione sia nel produrre razzismo linguistico, sia nel diffonderlo, nell’ascoltarlo, nel leggerlo”
Questo non riguarda un solo colore ideologico, ma sta appartenendo tendenzialmente a tutti perché per ogni “bruciamoli…che ti stuprino…apriamo i forni..” c’ è un “a testa in giù.. nelle fogne..” denotando un “tetro arcobaleno” di provenienze linguistiche ed una contrapposizione tra chi è sicuramente nel giusto e chi quasi non merita di vivere.
Il fatto è che le opinioni sono sempre esistite (e sempre si spera esisteranno), ciò significa che con esse esisterà anche il dissenso ed il confronto purchè entrambi siano espressi in modo civile e con il rispetto come base imprescindibile. Al momento invece sembra di avere a che fare con i capi classe dei malinformati, dei ripetenti per scelta, portatori della verità assoluta senza magari aver mai messo naso fuori di casa.
Non mi piace. Non mi piace questa tecnica di manifestare il proprio pensiero.
Al tempo stesso, da inguaribile romantico e comunque fiducioso del genere umano, non voglio credere ad una definitiva deriva malvagia del genere umano (anche se mio malgrado a volte mi trovo a dar ragione ad Emil Ferris quando afferma “tutti noi siamo dei mostri, ma quelli cattivi non sanno di esserlo”).
C’è dell’altro…c’è del malessere, c’è della povertà ed un senso di abbandono collettivo oggettivo che non viene captato a livello governativo e che trova sfogo, in modo individuando di volta in volta un tendenzialmente errato nemico che in quel momento è individuato come ostacolo alla propria affermazione.
Ovviamente la via non è questa. Ma queste persone, perché di persone parliamo, merita attenzione. Merita una risposta, altrimenti la deriva sarà ancora più buia di questa.
Calmiamoci tutti, uniamo le vulnerabilità e facciamone un coro unico. Non cerchiamo risposte semplici a problemi complessi ed a volte biblici.
Concludendo mutuando da Gaber: non temo il fascismo o il comunismo in sé, temo il fascismo o il comunismo in me, in noi.
Io…speriamo che me la cavo!