“Stay human. Africa”. Disabilità e pregiudizio
di Veronica Tedeschi
Come tutti i ragionamenti che si fanno sul continente africano, è bene distinguere tra le tante afriche che si trovano all’interno di un’unica terra.
E’ scorretto dire che in Africa la condizione dei disabili non è semplice, molti Stati hanno assistito ad un’evoluzione non indifferente sul tema in questi ultimi anni, vedendo la nascita di campagne di inserimento lavorativo o promuovendo percorsi di sensibilizzazione per la popolazione, come è accaduto in Kenya o in Congo.
Più in generale, la condizione dei disabili africani eredita un passato fatto di superstizioni e pregiudizi. Nel portatore di handicap gli africani vedevano, e tuttora, in larga parte, vedono, qualcosa di strano. Un’anomalia che, per forza, deve venire da un intervento esterno, più o meno spirituale. Un fenomeno che va interpretato. Se è nato un disabile è perché qualcuno ha fatto il malocchio, oppure i genitori si sono comportati male, oppure conoscenti o parenti hanno fatto riti speciali, ecc
In un passato non troppo lontano, in alcuni paesi, si arrivava fino alla loro soppressione. L’uccisione dei piccoli disabili era prassi comune. Spesso si sentiva dire: “Ho affidato il bambino alla zia…”. Questo significava che i piccoli erano stati dati a chi sapeva come eliminarli. In alcuni casi erano pure le madri a essere abbandonate e isolate dalle famiglie insieme ai bambini. In altri casi, come accadeva in Sierra Leone, i bambini disabili venivano abbandonati nella foresta e, nella maggior parte dei casi, perdevano la vita. Nonostante questo, oggi, la Sierra Leone si trova nell’elenco degli Stati che hanno fatto un passo avanti (seppur relativo): il governo locale ha concesso a diverse associazioni di costruire scuole e orfanotrofi destinati ai più sfortunati. Strutture costruite ben lontano dalla civiltà e seguite da realtà esterne, mai dal governo centrale (quasi come voler sopperire il senso di colpa senza però mischiarsi con i disabili). Un altro Stato “in evoluzione” è il Togo, dove sono nate diverse associazioni di persone disabili che chiedono riscatto e che provano a sopravvivere senza l’aiuto di nessuno.
«Il disabile – conferma Pierre Kouasi, religioso africano – era una sorta di maledizione. Non si capiva perché una famiglia potesse avere un figlio “non normale”. L’uccisione di un bambino disabile era una pratica comune. Venivano eliminati e poi, d’accordo con la famiglia, si diceva che il piccolo era morto durante il parto. Se sopravvivevano, venivano nascosti».
Fortunatamente le eliminazioni selettive, negli anni, sono gradualmente diminuite ma, parallelamente, non è diminuito il senso di colpa e di vergogna da parte delle famiglie.
E’ molto importante ragionare sul perché questo accade: in molte nazioni (solo a titolo esemplificativo e non esaustivo: Senegal, Camerun, Mali) non esiste alcuna forma di assistenza sociale, costringendo i genitori a far affidamento sui figli per poter godere in vecchiaia di un minimo di benessere. Il figlio è un investimento per il futuro e su un disabile non si può investire.
Unica eccezione a questo discorso sono i feriti di guerra i quali non sono considerati disabili ma, anzi, vengono trattati da eroi. Per loro c’è un’attenzione particolare anche da parte dello Stato. In Etiopia, per esempio, i feriti nella guerra contro l’Eritrea combattuta alla fine degli anni Novanta godono di assistenza e hanno anche uno status sociale elevato.
Per ultimo, non bisogna dimenticare la responsabilità forse più grande; quella delle istituzioni pubbliche. Mancano i fondi per un sostegno strutturale che dia vita a reti di centri pubblici e privati in grado di lavorare in sinergia sul fronte della cura e dell’integrazione: questo il motivo principale al quale vogliamo credere, sperano che motivazioni legale a superstiziosi o paure siano scomparse tra le cariche statali più alte.
La speranza è che l’evoluzione sul tema non si fermi, che gli stati continuino ad essere portatori di una necessità e che la popolazione cambi atteggiamento, abbandonando la paura e la superstizione in maniera definitiva.