“Imprese e diritti umani”. Evoluzione e disciplina dello “State Duty to Protect”
di Cecilia Grillo
Volendo dare seguito a quanto analizzato la volta precedente in materia di sviluppo di strumenti di tutela in materia di business e human rights, mi piacerebbe oggi occuparmi del primo pilastro dei UN Guidelines Principles on Business and Human Rights, il cosiddetto “dovere degli stati di proteggere i diritti umani”.
I principi guida relativi al settore Business human rights si devono ritenere applicabili a tutti gli Stati e a tutte le imprese indipendentemente delle dimensioni, settori, localizzazione, assetto proprietario e struttura e devono essere intesi collettivamente come strumento volto al miglioramento delle pratiche in essere in materia di imprese e diritti umani contribuendo a una globalizzazione socialmente sostenibile.
La necessità di prevedere una responsabilità degli Stati inerente alla protezione rispetto alle violazioni dei diritti umani si è sviluppata come conseguenza delle atrocità perpetrate in Somalia, Ruanda, Srebrenica e Kosovo alla fine del secolo passato, a seguito del quale la comunità internazionale si è interrogata sugli strumenti da attuare al fine di tutelare efficacemente i diritti umani violati dei cittadini di uno Stato.
Nel Report “We the People – the role of the United Nation in the 21st century” l’allora Segretario Generale Kofi Annan si esprimeva in tal senso a proposito del dovere morale di agire in nome della comunità internazionale: “Pochi tra voi non saranno d’accordo sul fatto che tanto la difesa dell’umanità, quanto la difesa della sovranità nazionale rappresentino dei principi che debbono essere difesi. Purtroppo, questa constatazione non ci dice quale principio debba avere la meglio quando essi sono in conflitto. L’intervento umanitario è davvero un tema delicato, che presenta serie difficoltà politiche e che non è suscettibile di ottenere risposte semplici. Ma, di sicuro, nessun principio legale – neanche la sovranità nazionale – potrà mai fungere da scudo per i crimini contro l’umanità. Nel caso in cui vengano compiuti dei crimini di questo genere, e tutti i tentativi pacifici di fermarli siano esauriti, il Consiglio di sicurezza ha il dovere morale di agire in nome della comunità internazionale. Il fatto che noi non siamo in condizione di proteggere le persone ovunque esse si trovino, non costituisce una ragione per non intervenire laddove è possibile. L’intervento armato deve sempre rimanere l’ultima risorsa, ma di fronte agli eccidi di massa è un’opzione cui non possiamo rinunciare a priori”.
Il rapporto tra il principio di sovranità e la tutela dei diritti umani è stato inizialmente trattato dalla International Commission on Intervention and State Sovereignty, ICISS, che, per la prima volta, ha analizzato il tema della “responsabilità di proteggere”, sulla base della quale gli Stati sovrani sono responsabili della protezione della propria popolazione civile dalle violazioni dei diritti umani e, laddove fossero impossibilitati od incapaci a garantirla, tale responsabilità dovrebbe essere assunta dalla comunità internazionale.
Nel suo rapporto “La responsabilità di proteggere”, la Commissione ha rilevato che la sovranità dà non solo allo Stato il diritto di “controllare” i propri affari, ma gli conferisce una maggiore “responsabilità” per la protezione delle persone all’interno dei suoi confini.
Il concetto di responsabilità di proteggere è stato poi richiamato dal Comitato su Minacce, Sfide e Cambiamento, nel discorso di Kofi Annan “In Larger Freedom” e nel Summit mondiale dell’ONU del 2005, in cui è stato conferito riconoscimento formale alla dottrina della responsabilità di proteggere, e a seguito del quale il rapporto del Segretario Generale del 2009 ha delineato una strategia basata su tre pilastri della responsabilità di proteggere:
1. “lo Stato ha la responsabilità primaria di proteggere la popolazione da genocidi, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica, così come dall’istigazione a questi crimini;
2. la comunità internazionale deve incoraggiare ed assistere gli stati nell’assunzione di tale responsabilità; e
3. la comunità internazionale ha la responsabilità di utilizzare appropriati mezzi diplomatici, umanitari ed altri per proteggere le popolazioni da questi crimini. Se uno Stato fallisce manifestamente nel compito di proteggere la sua popolazione, la comunità internazionale deve essere preparata ad intraprendere azioni collettive per proteggere la popolazione stessa, in accordo con la Carta dell’ONU”.
Se “ogni Stato ha la responsabilità di proteggere la propria popolazione da genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità”, la comunità internazionale deve incoraggiare ed aiutare gli Stati nell’esercizio di questo dovere di protezione utilizzando strumenti diplomatici ed ogni altro mezzo pacifico per aiutarlo a garantire il rispetto dei diritti umani. Inoltre, la Carta ONU, al capitolo settimo, prevede che nel caso in cui tali mezzi pacifici risultino inadeguati e le autorità nazionali falliscano nel loro compito di protezione della popolazione civile, la comunità internazionale, ricevuta autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza, può dare luogo ad un’azione collettiva tempestiva, da analizzarsi “on a case-by-case basis”.
A seguito della sua adozione formale nel World Summit del 2005, la dottrina della responsibility to protect è stata richiamata dall’Assemblea Generale nel 2009 per mezzo della delineazione di una “three-pillar strategy”.
Nel 2011, con la redazione degli UN Guidelines Principles on Business e Human Rights, nel Primo Pilastro, relativo al “dovere degli Stati di proteggere”, vengono elencati i due principi fondamentali e quelli operativi in materia di imprese e diritti umani in relazione al dovere di protezione delle multinazionali.
Il principio n.1 del Primo Pilastro prevede che “States must protect against human rights abuse within their territory and/or jurisdiction by third parties, including business enterprises. This requires taking appropriate steps to prevent, investigate, punish and redress such abuse through effective policies, legislation, regulation and adjudication”.
I Guiding Principles raccolgono un insieme di principi dal carattere eterogeneo, richiamando, con riferimento ai doveri dello Stato, le norme di diritto internazionale inerenti ai diritti umani già esistenti, tuttavia tali principi non possono essere considerati una nuova normativa di diritto internazionale, ma come l’insieme di principi volti ad armonizzare il quadro già esistente relativo alla questione business and human right.
Gli obblighi degli Stati di proteggere i diritti umani sono disciplinati anche attraverso alcune norme di diritto internazionale di mezzo – e non di risultato – non sussistendo una responsabilità diretta dello Stato per le violazioni dei diritti umani commesse dalle imprese, responsabilità che potrebbe svilupparsi laddove lo Stato in questione avesse omesso di predisporre delle misure idonee a prevenire gli abusi e a sanzionarli.
Viene così lasciato un certo margine di discrezionalità agli Stati rispetto all’esercizio del proprio duty to protect, che rappresenta uno standard of conduct nella cui realizzazione gli Stati sono liberi di scegliere gli strumenti più idonei da adottare.
Il principio n. 2 dispone che “States should set out clearly the expectation that all business enterprises domiciled in their territory and/or jurisdiction respect human rights throughout their operations”, in quanto non sono presenti norme internazionali che obblighino gli Stati a disciplinare attività extraterritoriali.
Tale principio è volto a soffermare l’opportunità, da parte degli Stati, di adottare norme aventi portata extraterritoriale, nonostante sia stato escluso che vi sia un obbligo di diritto internazionale per gli Stati di regolare le attività svolte all’estero dalle società costituite sul proprio territorio, non essendo tuttavia previsto neppure un espresso divieto.
Infine, i principi operativi previsti dal Primo Pilastro elencano tre settori relativi a business and human rights che necessitano di intervento statale: (i) il rapporto tra diritto interno, corporate regulation e diritti umani; (ii) la politica dei contratti internazionali di investimento; (iii) l’attività nelle aree di conflitto.
Il Primo Pilastro sottolinea come gli Stati abbiano una serie di obblighi di diritto internazionale in tema di diritti umani sottolineando la necessità che operino un coordinamento tra le politiche a sostegno degli investimenti e la tutela dei diritti umani.
Gli Stati infatti avrebbero bisogno di politiche ad hoc rivolte alle imprese che svolgono attività sul territorio dello Stato e all’estero, dirette a implementare una cultura del business rispettosa dei diritti umani, e grazie alle quali gli Stati potrebbero ricoprire un ruolo fondamentale nel sostenere le imprese a identificare i rischi di violazioni dei diritti umani.
I Guide Lines Principles on business e human rights non si limitano a suggerire l’adozione di norme o regolamenti, ma rappresentano veri e propri principi in grado di delineare per gli Stati una guida pratica di come operi il “duty to protect” sancito a livello internazionale, attraverso la convergenza delle proprie politiche interne in tema di business e quelle di tutela dei diritti umani in conformità ai propri impegni internazionali.