“Imprese e diritti umani”. Sfruttamento del lavoro minorile: nel mirino i colossi hi-tech
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di Fabiana Brigante
La categoria di lavoratori minorenni comprende individui troppo giovani per lavorare o coinvolti in attività pericolose che possono comprometterne lo sviluppo fisico, mentale, sociale o educativo. Nei paesi non industrializzati, poco più di un bambino su quattro (dai 5 ai 17 anni) è impegnato in un lavoro che è considerato dannoso per la salute e lo sviluppo.
Non esiste una definizione unica ed esaustiva di lavoro minorile: sono generalmente presi in considerazione diversi indicatori per comprendere se una determinata attività possa essere o meno ricompresa in questa categoria. Gli elementi da tenere in considerazione sono, tra gli altri, l’età del bambino, il tipo di attività da lui svolta e il numero di ore in cui viene impiegato, nonché le condizioni alle quali il lavoro viene svolto. La risposta varia da paese a paese, ed anche tra i diversi settori produttivi all’interno dei singoli paesi.
Ciò che è certo è che l’eradicazione del lavoro minorile deve essere perseguita con la massima determinazione. Sul punto, diversi sono gli strumenti internazionali che sottolineano la libertà dal lavoro minorile quale valore universale e fondamentale. Tra questi, vale la pena menzionare la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, la Convenzione n. 138 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) relativa all’età minima per l’ammissione al lavoro e la successiva Raccomandazione n. 146 (1973), la Convenzione OIL n. 182 concernente il divieto e l’azione immediata per l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro minorile e la Raccomandazione n. 190 (1999).
Questi strumenti inquadrano il concetto di lavoro minorile e costituiscono la base della legislazione su tale tema adottata dai paesi firmatari.
Anche l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile comprende un rinnovato impegno globale a porre fine a questo fenomeno. In particolare, l’Obiettivo 8.7 invita la comunità globale ad “adottare misure immediate ed efficaci per sradicare il lavoro forzato, porre fine alla schiavitù moderna e alla tratta di esseri umani e garantire il divieto ed eliminazione delle peggiori forme di lavoro minorile, incluso il reclutamento e l’impiego di bambini soldato, nonché porre fine entro il 2025 al lavoro minorile in ogni sua forma”.
Malgrado ciò, le stime globali fornite dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro e da organizzazioni quali UNICEF dimostrano come il lavoro minorile rimanga ancora oggi una piaga endemica. La sua eliminazione richiede sia riforme economiche e sociali, sia la cooperazione attiva di governi, organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, imprese, organizzazioni internazionali e società civile in generale.
Stando ai dati forniti, sono 152 milioni i bambini – 64 milioni di ragazze e 88 milioni di ragazzi – che lavorano a livello globale, rappresentando quasi uno su dieci in tutto il mondo. Tra questi, circa la metà svolge un lavoro pericoloso che mette direttamente in pericolo la propria salute, sicurezza e sviluppo morale. Una analisi più ampia che comprende sia il lavoro minorile che le forme di lavoro consentite che coinvolgono bambini in età lavorativa legale mostra che i minori impiegati sono 218 milioni. Il fenomeno non risparmia di certo l’Italia, dove solo negli ultimi due anni sono stati accertati più di 480 casi di illeciti riguardanti l’occupazione irregolare di bambini e adolescenti, sia italiani che stranieri.
Nella stregua lotta al lavoro minorile sono finiti nell’occhio del ciclone di recente alcuni colossi dell’industria tecnologica.
Il 12 dicembre l’organizzazione International Rights Advocates (IRA) ha intentato un’azione legale presso la Corte Federale del Distretto di Columbia negli Stati Uniti per la morte di numerosi bambini e ragazzi impiegati nell’estrazione di cobalto nella Repubblica Democratica del Congo. Ad essere citate in giudizio sono le aziende Apple, Alphabet (Google), Dell, Microsoft e Tesla, accusate di aver favorito consapevolmente l’impiego di lavoro minorile nelle miniere di cobalto e di aver ottenuto significativi vantaggi finanziari dalla diffusa estrazione illegale di cobalto da parte dei piccoli lavoratori congolesi.
Non è un caso che sia proprio la Repubblica Democratica del Congo ad ospitare questo scenario macabro; qui si trovano i più grandi depositi al mondo di cobalto, un elemento essenziale nelle batterie ricaricabili agli ioni di litio utilizzate nei dispositivi elettronici che le citate aziende producono. Il boom tecnologico ha causato un aumento esponenziale della domanda di cobalto; la sua estrazione nella Repubblica democratica del Congo avviene in condizioni estremamente pericolose, (anche) ad opera di bambini e ragazzi pagati un dollaro o due al giorno.
I querelanti hanno fondato le proprie doglianze sul Trafficking Victims Protection Reauthorization Act (TVPRA).
Secondo quanto riferito dai membri di International Rights Advocates, questa causa rappresenta il frutto di ricerche e collezione di dati durati diversi anni. L’organizzazione avrebbe documentato come bambini e ragazzi fossero regolarmente costretti a svolgere lavori minerari a tempo pieno, estremamente pericolosi e a discapito della propria istruzione e del proprio futuro. Nelle 79 pagine di citazione si susseguono le storie di bambini e ragazzi costretti dalla povertà estrema a lasciare la scuola e perseguire l’unica opzione economica percorribile nella loro regione: diventare minatori di cobalto. Questo ampio settore comprende bambini che si recano nelle aree in cui si trova il cobalto e usano strumenti primitivi per estrarre questo minerale senza alcuna attrezzatura di sicurezza. Inoltre, la mancanza di supporto strutturale nelle gallerie dove tale attività viene svolta causa frequenti collassi dei tunnel, causando le mutilazioni o la morte dei piccoli lavoratori, i cui corpi restano intrappolati nelle macerie e mai recuperati.
Una tra i querelanti, nominata Jane Doe 1 nei documenti depositati presso la corte distrettuale, afferma che suo nipote era costretto a cercare lavoro nelle miniere di cobalto quando era un bambino piccolo a causa dell’impossibilità per la famiglia di pagare la sua retta scolastica mensile di 6 dollari. La ricorrente riferisce che il minore stava lavorando in una miniera gestita da Kamoto Copper Company, controllata da Glencore, quando il crollo del tunnel lo ha sepolto vivo. La famiglia sostiene di non aver mai recuperato il suo corpo.
Un altro bambino, indicato nei documenti come John Doe 1, afferma di aver iniziato a lavorare nelle miniere a nove anni. Stava portando sacchi di rocce di cobalto per 0,75 dollari al giorno quando è caduto in un tunnel. Dopo essere stato recuperato dai compagni di lavoro, afferma di essere stato lasciato solo per terra nel sito minerario fino a quando i suoi genitori non hanno saputo dell’incidente e sono accorsi per aiutarlo. Questo incidente gli ha provocato una paralisi che gli impedirà di camminare per il resto della sua vita.
Dai siti internet delle aziende citate in giudizio emerge che tutte avevano adottato codici di condotta che vietavano ai subfornitori l’impiego di lavoro minorile. Alcune tra le aziende citate hanno rilasciato dichiarazioni in merito alle accuse che gli sono state mosse. Tra queste, Dell ha dichiarato di essere “impegnata nel reperimento responsabile di minerali” e di sostenere i diritti umani dei propri lavoratori a qualsiasi livello catena di approvvigionamento, trattandoli “con dignità e rispetto”.
Allo stesso modo, Google ha sottolineato che la propria due diligence prevede un severo divieto per i fornitori di servirsi di lavoro minorile.
I giudici saranno chiamati ad accertare se le imprese citate in giudizio fossero a conoscenza di quanto avveniva nelle miniere di proprietà dei propri fornitori di cobalto. Come specificano anche i Principi Guida ONU su imprese e diritti umani, le imprese hanno infatti il dovere di identificare, nell’ambito delle proprie attività, le aree generali in cui il rischio di impatti negativi sui diritti umani è significativo, a causa del contesto operativo di determinati fornitori o clienti, delle operazioni particolari, dei prodotti o servizi coinvolti, al fine di prevedere possibili violazioni.