“America latina. Diritti negati”. La storia di Maria Teresa
di Tini Codazzi
Maria Teresa Rivera è una donna semplice e umile, di 40 anni, di El Salvador, quel piccolo paese del Centro America, incastonato nella costa occidentale tra Guatemala, Honduras e Nicaragua. Un paese dove la natura fa da protagonista: spiagge meravigliose, cascate, vulcani, siti archeologici… ma la sua storia nasconde lunghe dittature iniziate nei primi anni del secolo scorso, una guerra contro l’Honduras e poi una lunga e sanguinaria guerra civile durata 12 anni che lascio il paese a terra con una stima di più di 70 mila tra morti e desaparecidos e che ancora, dopo 28 anni fatica a recuperarsi. Un paese occidentale, dell’America Latina e quindi pieno di paradossi e per certi versi molto arretrato per quello che riguarda alcuni aspetti dei diritti civili. Ne El Salvador, così come in altri paesi della regione (Nicaragua, Honduras, Chile e Haiti) l’aborto è illegale. Lì la situazione però è molto pesante, è un crimine punito dalla legge, perché la condanna che viene applicata non è per aborto. L’accusa viene modificata nel processo, quindi una donna che ha abortito deve pagare e viene accusata di omicidio aggravato e le sentenze vanno dai 30 ai 50 anni. Non importa se l’aborto è spontaneo, se ci sono complicazioni accertate di morte sia per il bambino che per la madre, se la donna è stata stuprata o se c’è insofferenza fetale. È sempre e comunque omicidio. L’applicazione di questa legge lascia esterrefatti soprattutto per il tipo di accusa e la pena inflitta. Le leggi sull’aborto dipendono da ogni paese ma è sempre un tema scottante e che spacca la società in due. Vorrei comunque evidenziare la mancanza di rispetto e la violazione dei diritti di queste donne, in questo caso specifico della legge salvadoregna qualunque sia stata la ragione per abortire. Sta di fatto che l’aborto è una tragedia che comunque segnerà la vita di una donna per sempre e la condannerà dal punto di vista psicologico.
Ma torniamo a Maria Teresa. È il 2011, dopo 30 settimane di gestazione soffre un aborto spontaneo mentre era in bagno. Sviene. Si sveglia in ospedale, ammanettata al lettino e senza capire il perché. Lei continua a sostenere che non sapeva di essere incinta, anche se dopo 30 settimane è difficile non rendersi conto del proprio stato. E’ importante dire, però, che in questi paesi la mancanza di istruzione e la disinformazione in ambito sanitario e/o la diffusione di campagne di informazione sulla vita sessuale è molto alta soprattutto nella fetta di popolazione povera, che in America Latina è una gran percentuale. Dicevamo, siamo nel 2011 e Maria Teresa è in ospedale, il personale l’aveva denunciata alle autorità per aver abortito. Dopo qualche mese, parte un processo contro di lei e in meno di 10 minuti e senza prove viene condannata a 40 anni di prigione per appunto, omicidio aggravato, dopo che la Procura l’aveva dipinto come una assassina e soprattutto affermando che l’aveva fatto con premeditazione, anche se un dottore dell’ospedale aveva dichiarato che il bambino era già morto prima dell’aborto. Quindi, dopo il processo inizia il calvario per Maria Teresa, dimostrare che è stato un aborto spontaneo. Passa 4 anni in carcere e lì viene umiliata, non solo dal personale ma anche da altre donne che erano rinchiuse per altri crimini: assassina, mangia bambini, cattiva madre… questi alcuni degli insulti che riceve, per non parlare delle minacce. Grazie all’appoggio di alcune organizzazioni umanitarie e ONG va in appello e nel 2016 un giudice annulla la sentenza e la donna torna in libertà. Una libertà molto relativa direi, perché ormai la sua famiglia e i suoi amici le avevano dato le spalle, non trovava lavoro ed era da sola insieme a suo figlio (il primo e unico) ad affrontare una società che punta il dito contro le donne che abortiscono e che per di più sono povere e non protette dallo stato, infatti lo Stato doveva risarcirla ma non lo fece mai, al contrario, iniziò una caccia alle streghe presieduta dalla Procura Generale che voleva riaprire il caso. Nella sua città la guardavano male, nessuno voleva parlare con lei, la minacciavano e la umiliavano. Il Tribunale, dopo tante pressioni, informa agli avvocati di Maria Teresa che le opzioni sono due: c’era un forte rischio di riaprire il caso e incarcerarla di nuovo o andare via dal paese, cioè fuggire immediatamente. Ovviamente decise di andare via e insieme a suo figlio Oscar, che all’epoca aveva undici anni, si preparò per fuggire. Nel frattempo, le organizzazioni umanitarie conoscevano già il suo caso. Amnesty International la invita in Svezia a partecipare ad un seminario. Lì è successa la svolta perché Maria Teresa decide di parlare con immigrazione e raccontare la sua storia, per sua sorpresa, le autorità la ascoltano e decidono di aiutarla e dopo alcuni mesi concederle protezione internazionale ed è qui che questa storia diventa molto importante e crea un precedente per tutte le donne perseguitate per aborto, perché Maria Teresa è il primo caso pubblico di asilo vincolato al diritto di aborto e per il rischio di essere incarcerata per questo motivo nel paese di origine.
“Mi dissero che una condanna a 40 anni per aborto era una tortura, perché l’aborto è un diritto e ne El Salvador le leggi al riguardo sono molto restrittive. La cosa più importante è che adesso questa porta è aperta per tutte le altre donne salvadoregne ed è per questa ragione che io lotto, c’è opportunità per tutte” ha detto la donna in un’intervista ad un giornale spagnolo, perché purtroppo lei non è l’unica donna che ha vissuto questa ingiustizia nel paese centroamericano. Fino al 2017, la cifra di donne salvadoregne condannate era di 17: Mayra, Beatriz, Alba, Lorena, Manuela, Guadalupe, Evelyn… tutte giovani e di origini umili, alcune vittime di violenza sessuale.
“Per noi non c’è giustizia. Siamo le donne povere a finire in prigione per aver subito emergenze ostetriche che si sono concluse con un aborto o per averlo sofferto a causa di uno stupro. Ne El Salvador si condanna la povertà, ci stanno punendo per essere donne e povere” dice nella stessa intervista al giornale spagnolo ABC.
Adesso vive in un paesino vicino a Stoccolma. Studia, vorrebbe essere infermiera, vive con l’aiuto e il sussidio dello stato. Suo figlio ha 17 anni e parla svedese abbastanza bene, anche lei riesce a comunicare. Certamente i primi mesi sono stati molto difficili: la lingua, il clima, la solitudine… ma l’importante è che Maria Teresa in Svezia si è sentita protetta, ascoltata e considerata come donna e questo non è poco.