Un percorso tra poesia e identità di genere
Nella settimana dedicata alla lotta contro la trans-omofobia, Associazione Per i Diritti umani ha intervistato Sonia Zuin, che ringrazia molto per la sua disponibilità a raccontare di sè e per aver chiarito molti punti importanti sul tema.
A cura di Alessandra Montesanto
Proviamo, innanzitutto, a dare una definizione di identità di genere
Non sono una psicologa e non sono in grado di darne una definizione ufficiale. Nel mio piccolo posso solo raccontare quello che ho vissuto e quello che, poco alla volta, ho capito. Penso che ognuno di noi abbia almeno tre identità: quella soggettiva, che rappresenta il nostro io più profondo, quella corporea, legata al nostro corpo maschile o femminile, e quella che io chiamo relazionale, legata ai nostri rapporti sociali. Le prime due attengono alla propria persona, la terza al nostro rapporto con il mondo esterno. Normalmente queste tre identità sono sostanzialmente, o perfettamente, sovrapposte e coincidenti, al punto che è impossibile capire cosa prova una persona in cui questa coincidenza non si verifica. Fa riflettere il fatto che, fino a non tanti anni fa, se non vado errata trenta o quaranta, i problemi di identità di genere erano associati ai disturbi della mente. Ora l’intera comunità scientifica ha finalmente capito e accettato che la mente delle persone transessuali è perfettamente sana, e che eventuali disturbi (tutt’altro che infrequenti, come ad esempio le sindromi depressive) sono unicamente dovute alle difficoltà che le persone transessuali possono ancora avere nel mondo del lavoro e delle relazioni sociali.
Quello che ho vissuto io, dal momento in cui ho acquisito la consapevolezza di avere un problema di identità di genere, è stato terribile e non lo augurerei a nessuno perché ci si sente imprigionati nella peggiore delle prigioni: quella del proprio corpo in primis, e successivamente quella delle relazioni sociali. Questa esperienza mi ha fatto capire che l’unica vera identità è quella interiore, e il disagio che si prova quando non si ha la possibilità di esprimerla nelle relazioni sociali è fortissimo. Ovviamente ogni storia è diversa dalle altre: ci sono persone transessuali che riescono a trovare un equilibrio vivendo la propria identità solamente in determinati ambiti della propria vita e mantenendo l’identità ufficiale in tutti gli altri. Io, da subito, ho capito che mai avrei potuto comportarmi in questo modo, non solo perché penso di essere una persona molto trasparente e diretta nei rapporti con le persone, ma anche perché ho vissuto la crisi di identità nell’ambito di un profondo rapporto con la mia famiglia.
Il rapporto con il proprio corpo è invece un discorso completamente diverso: senza entrare nei dettagli, non riuscire a trovare un equilibrio tra il proprio io interiore e il proprio corpo può creare un disagio così profondo da essere una fonte di pericolo per la propria salute fisica e psichica. Da qui nasce l’esigenza, in alcune persone, di ricorrere agli interventi chirurgici per cercare di migliorare il più possibile il proprio benessere. Il problema enorme che si avverte, apparentemente insolubile se non attraverso un lungo percorso psicologico eventualmente coadiuvato da quello chirurgico, sta nel fatto che è terribile la sensazione di sentirsi appartenenti, contro il proprio volere e desiderio, ad un corpo che non si riconosce come proprio.
Ci tengo infine a sottolineare il fatto che, contrariamente a quello che comunemente la gente pensa, l’identità di genere non c’entra niente con quella sessuale: non è vero che una persona, acquisendo la consapevolezza di essere transessuale, automaticamente si senta attratta dalle persone di genere opposto al proprio, ossia che una donna trans sia attratta dagli uomini e viceversa. Questo è quello che accade normalmente, ma solo quando alle spalle c’è già un vissuto di omosessualità. In altri termini, una donna lesbica, se nel suo percorso acquisisce la consapevolezza di essere un uomo, diventerà etero in riferimento alla sua vera identità, ma quello che rimane solitamente inalterato è il genere di persona che ci attrae sessualmente e che ci fa innamorare.
In realtà, nel momento in cui si disgrega la coincidenza tra identità soggettiva e corporea, sono possibili molteplici sfumature, tra cui, ad esempio, quelle delle persone che si definiscono non binarie, ossia che non si riconoscono né in un uomo, né in una donna. Fondamentalmente sono convinta che ogni persona debba avere la possibilità di esprimere con la massima libertà il proprio io, e che questa libertà debba essere limitata solo nel momento in cui lede quella degli altri, cosa che, nell’ambito dell’espressione di un’identità transessuale, non vedo come possa accadere. Questo lo penso per due motivi ugualmente importanti: il primo riguarda ovviamente la tutela del benessere di ogni individuo, che è sicuramente un diritto inalienabile di tutte le persone; il secondo attiene al ruolo e al contributo che ognuno di noi deve dare alla società: siamo infatti in crisi profonda da molti anni, e l’attuale pandemia non ha fatto altro che acuire la crisi pregressa. In questa situazione ritengo molto semplicemente che abbiamo l’obbligo di focalizzarci sulle questioni importanti e che non possiamo permetterci il lusso di rinunciare al contributo positivo che una persona transessuale, nel suo piccolo, può dare. Contributo che può in qualche caso essere importante perché spesso una persona transessuale, proprio in virtù del proprio singolare vissuto personale, ha un modo di vedere le cose differente da quello delle persone cis (ossia non transessuali).
Quale è stato il suo momento più difficile nel percorso di transizione?
Direi che ce ne sono stati due: il primo, veramente terribile, quando nella mia testa completai il puzzle che stavo facendo da almeno vent’anni prelevando a caso i pezzi, uno a uno, che spontaneamente emergevano dal mio inconscio. I pezzi del mio io, man mano che il puzzle prendeva forma, trovavano la loro giusta collocazione, ma fino alla fine non ebbi il coraggio di vedere nel suo insieme chi fosse il soggetto del puzzle. Penso che sia stato un meccanismo inconscio di difesa della mia realtà quotidiana che non avevo la minima intenzione di disgregare. Ero infatti riuscita a costruirmi una vita appagante sotto tutti gli aspetti, affettivi, professionali e relazionali, malgrado quello che covavo dentro di me e che poco per volta stava emergendo attraverso un processo inconscio che non potevo arrestare e che mi portava progressivamente a completare il puzzle. Ad un certo punto, anche se non era ancora finito perché, in effetti, una vita intera non è sufficiente per completare il puzzle che rappresenta chi siamo, non riuscii più ad evitare di guardare l’immagine che si stava componendo, e quello che vidi fu sconvolgente: una donna al posto di un uomo. Era da vent’anni che costruivo il puzzle con pezzetti che erano chiaramente femminili e che avevo imparato ad accettare, ma un conto è avere la consapevolezza che la tua personalità ha una componente femminile importante, un altro è maturare la consapevolezza di essere una donna, con tutto quello che ne consegue. Passai un mese dormendo solo qualche ora di notte perché alle tre del mattino mi svegliavo con l’angoscia di vedere la mia vita andare in pezzi, consapevole che nessuno mi avrebbe capito e accettato. Dal momento in cui ebbi il coraggio di guardare il puzzle nel suo complesso, infatti, nella mia testa ci fu per lungo tempo una grandissima confusione, penso comprensibile, ma una cosa fu da subito chiarissima e incontrovertibile: io non potevo più continuare a fare la vita di prima perché dovevo iniziare la transizione. Era evidentemente un’elaborazione che avevo fatto da lungo tempo nelle profondità del mio inconscio, ma che per tantissimi anni ero riuscita a non fare affiorare in superficie; nel momento in cui ne divenni consapevole, mi si presentava come un’ovvia e non più procrastinabile conseguenza della mia realtà interiore.
Alla fine mi decisi e me parlai una mattina con mia moglie. Lei da sempre sapeva che c’erano parecchi pezzi femminili nel puzzle della mia testa e in qualche modo li aveva accettati, ma ovviamente la necessità di cambiamento che le raccontai fu per lei sconvolgente, anche se ricordo che la prima cosa che mi disse a caldo fu “non pensavo così presto”. A distanza di tempo sono convinta che io e mia moglie abbiamo inconsciamente eretto una barricata, che per anni ha protetto il nostro rapporto nei confronti della realtà disgregante che progressivamente emergeva dal mio inconscio, utilizzando una tecnica inconscia comunissima: non vedere quello che non volevamo vedere. È lo stesso meccanismo mentale che permette ai bambini di nove, dieci anni di credere che esista babbo Natale che porta i regali, anche se a quell’età hanno ormai tutti gli strumenti logici e una percezione delle realtà sufficientemente chiara per capire che questa è un’evidente assurdità. Ma crederci è così bello che nella testa dei bambini scatta una sorta di protezione che inibisce tutti i meccanismi logici che rovinerebbero la magia. Io e mia moglie avevamo una bellissima realtà da preservare: il nostro rapporto e la nostra famiglia. Così per una vita siamo entrambe riuscite a credere che i pezzi femminili che da tempo erano emersi dal mio inconscio rappresentavano solo una parte di me, dando per scontato che il resto fosse maschile. Del resto una cosa fondamentale che ci ha tratto in inganno per lungo tempo è il fatto che a me continuano a piacere le donne, e questo contribuiva molto a rafforzare l’idea che io fossi un uomo con un importante lato femminile.
Gli anni che seguirono furono molto difficili perché mia moglie sentiva che non poteva accettare la mia transizione, mentre io sentivo che non potevo non farla. In mezzo c’era il nostro bel rapporto che ormai era decisamente in crisi, ma che tutte e due facevamo il possibile per preservare, non solo per salvaguardare quello con i nostri figli che non sapevano ancora niente, ma anche perché sapevamo che c’era sicuramente un gran polverone che rendeva poco chiare le cose, e che c’erano esigenze inconciliabili, ma che al di sotto del polverone rimaneva un rapporto molto solido e importante per tutte e due.
I guanti: per molti un oggetto comune, utile. Per lei che significato hanno avuto?
Sin dalla più tenera età i guanti hanno esercitato su di me un fascino irresistibile che mi spingeva a provarli e ad indossarli, ma solo di nascosto perché mi vergognavo a farne un uso normale. È una cosa che mi sono sempre tenuta per me. In certi periodi ricordo che mi facevo coraggio e incominciavo ad indossarli – ai tempi erano i normalissimi guanti di lana dei ragazzini – ed era tale il piacere che mi dava questa conquista che non li toglievo mai. Da sempre la prima cosa che mi saltava all’occhio di una persona erano i guanti, nel caso li indossasse. Durante l’adolescenza, quella che prima era una generica attrazione per l’oggetto in sé, senza particolari connotazioni, si trasformò in attrazione per le donne che indossavano i guanti, il che mi fece pensare ad una forma di feticismo. Questa faccenda incominciò però a crearmi qualche problema solo verso i vent’anni, quando capii che ero io a desiderare di indossare i guanti da donna. Ricordo un’estate in cui, dopo essermi vista con i miei amici per giocare a biliardo, andai in un negozio a comprare il mio primo paio di guanti da donna: neri, in pelle, sfoderati e lunghi fino al polso. In pratica un normalissimo paio di guanti da donna, ma quando uscii e li indossai, provai una sensazione indescrivibile. La potrei descrivere, senza esagerare, come qualcosa che nella tua testa si collega e incomincia a trovare il suo posto. Tornai a casa con il mio prezioso bottino e ovviamente lo nascosi perché non volevo certo far vedere ai miei genitori cosa avevo comprato. Ogni tanto li indossavo di nascosto, ma con il passare del tempo incominciò a crescere il disagio di possedere qualcosa che per me era molto importante, ma che non era certo normale avere. Così, dopo qualche mese, quando l’imbarazzo di custodire un oggetto così ingombrante superò la soglia della mia sopportazione, li buttai via ripromettendomi che con questa faccenda avrei chiuso. Ma dopo qualche mese il desiderio di possederli diventò così forte e insistente che cedetti e andai a comprarne un altro paio. Per una decina d’anni andai avanti in questo modo senza riuscire a trovare un equilibrio. Nel frattempo mi laureai e iniziai a lavorare; avevo un sacco di amici, conobbi quella che sarebbe diventata mia moglie, ci sposammo, ma c’era nella mia vita un segreto che non volevo raccontare a nessuno, neanche a mia moglie, pur avendo un bellissimo rapporto, perché continuavo a sperare di riuscire a estirparlo definitivamente dalla mia testa. Sono sicuramente una persona tenace, perseverante e che non si arrende al primo insuccesso…
Quello che cambiò le cose fu un cupo episodio vissuto in un momento di vuoto totale in cui pensavo che mai sarei riuscita a trovare un equilibrio tra la bella vita che conducevo e il mio insano segreto (che nel frattempo aveva abbracciato anche le gonne, provando di nascosto quelle di mia moglie che ha più o meno la mia corporatura). Quell’episodio mi spaventò e che mi fece capire che così non potevo andare avanti. Lo shock mi diede la forza di fare nella mia testa una rivoluzione copernicana, liberandomi definitivamente dal proposito di estirpare quello che evidentemente era impossibile estirpare, e accettando il fatto che se a me piaceva indossare i guanti da donna e ai miei amici no, voleva solo dire che io ero fatto (ai tempi ovviamente coniugato al maschile) così, e che in fondo non stavo facendo del male a nessuno tranne che a me stesso. Capii subito, però, che avevo fatto un passo da gigante e immediatamente mi fu chiaro che non potevo più vivere accanto a mia moglie, guardarla negli occhi e dormire accanto a lei, senza raccontarle questo scomodo ed ingombrante lato della mia personalità. È comprensibile il suo shock, anche perché io non ho mai avuto atteggiamenti effemminati. Una delle prime cose che mi chiese era se io provassi attrazione per gli uomini… “no, io continuo a volere bene a te, continuano a piacermi le donne, ma l’altra sera stavo facendo una grandissima cazzata e ho capito che così non posso andare avanti”.
Con mia gande fortuna, dopo qualche giorno mia moglie mi disse che non mi avrebbe mollato, che potevamo continuare la nostra vita insieme, anche se il lato femminile del mio carattere non era certo quello che preferiva. Passarono gli anni, nacquero i nostri due figli, ma i guanti continuavano a rimanere il mio oggetto del desiderio che indossavo appena potevo. Questa vicenda ebbe una svolta decisiva solo due anni fa, quando incominciai la transizione e a vivere la mia vita quotidiana come Sonia. Prima di trasferirmi, più volte avevo pensato che nella mia nuova casa avrei indossato i guanti ventiquattro ore al giorno, ma in realtà, quando incominciai a traslocare poco per volta le mie cose, portai subito le mie chitarre, ma decisi di aspettare a portare la guantiera che anni prima mi aveva regalato mia moglie, perché capii che associati ai guanti c’erano anche tanti ricordi travagliati che preferivo non portare con me. Ogni volta che andavo a trovare la mia famiglia, mia moglie preparava una valigia di cose rimaste ancora da lei. Un giorno, aprendo la valigia a casa mia, vidi la guantiera… L’aprii, non ricordo neanche se provai un paio, perché la rimisi subito nell’armadio pensando che forse sarebbe stato meglio riportarla indietro, anche se non lo feci. Dopo qualche mese, poco per volta capii che potevo permettermi il lusso di riaprire la guantiera perché i guanti avevano perso la loro magia… ora erano solamente un bellissimo accessorio. Aprii la guantiera e con piacere riscoprii tutti i diversi tipi che avevo collezionato nel corso degli anni, corti, lunghi, di pelle, di raso, di vari colori, bellissimi accessori che mi piace ancora indossare, e lo faccio spesso, scegliendoli con cura e intonandoli al vestito. Ma ormai non rappresentano più nulla. È stata una grandissima liberazione. Questa vicenda mi ha fatto capire che Sonia esisteva nel mio inconscio già quando avevo cinque o sei anni e che, chissà per quale motivo, utilizzava i guanti come simbolo per cercare di venire alla luce.
La sua famiglia è composta da moglie e due figli. Ha mantenuto un buon rapporto con questi ultimi? Come si rapportano con lei?
Ho la fortuna di essere riuscita a mantenere un ottimo rapporto con mia moglie e con i nostri figli. Per tanti anni il rapporto con mia moglie è stato teso perché ognuna di noi non voleva rinunciare all’altra, ma ognuna di noi non poteva accettare una parte dell’altra: lei mi diceva che, se non avessi fatto la transizione, avremmo potuto continuare a vivere insieme, ma io sapevo perfettamente che correvo seriamente il rischio di impazzire se non l’avessi fatta. Uscita di casa, la ragione dei nostri scontri non sussisteva più, e poco per volta tornò a prevalere il grande affetto e la grande intesa che ancora ci lega. In ogni caso mia moglie è sempre stata vicina e i passaggi importanti li abbiamo superati lavorando insieme e mettendo da parte i motivi di scontro. Mia moglie è una persona speciale, su questo non ho il minimo dubbio.
È anche grazie al rapporto costruttivo e sereno che ho con lei, che quello con i nostri figli è altrettanto solido e sereno. Ci vediamo spesso, parliamo, facciamo sempre più cose insieme, e io sono rimasta una delle due persone di riferimento che interpellano quando hanno bisogno di un consiglio, e in questi casi è mia moglie la prima che suggerisce loro di sentire anche il mio parere. Penso di non aver perso la stima di loro tre, e questo per me è di fondamentale importanza.
Ha scritto una bellissima silloge intitolata Percorsi Silenziosi. Ce ne vuole parlare?
Ho incominciato a sentire il desiderio di scrivere quando ero al liceo: a quei tempi non erano poesie, ma i testi delle canzoni che provavo a scrivere insieme ai miei compagni di classe con cui avevo formato il mio primo gruppo rock. Cose sicuramente di nessun valore artistico e per lo più pretenziose, perché ai tempi uno dei riferimenti era la musica progressive degli anni ’70 tipo Genesis e King Crimson. In quinta liceo fui letteralmente folgorata dalla poesia di Ungaretti: in particolare mi colpì Soldati per la sua estrema semplicità e sintesi (4 versi e 8 parole comuni che dicono tutto) e pensai: “…ma allora si può scrivere anche così! Bene, ho capito come fare!”. Beh… ho riportato questo buffo pensiero di allora solo per dire che in quell’occasione trovai un modello che mi convinceva, non che i miei risultati artistici di allora e di adesso possano minimamente essere confrontati con quelli del grande poeta. Ricordo però che incominciai a scrivere qualcosa che non finiva nel cestino dopo qualche settimana, e così, poco alla volta, capii che mi piaceva scrivere le poesie. Ai tempi non le chiamavo neanche così perché mi sembrava troppo pretenzioso… invece di poesie le chiamavo cose, il ché adesso mi sembra ridicolo. Mia moglie, non ricordo in quale occasione, trascrisse a mia insaputa le poesie con la macchina da scrivere (ai tempi non si usavano ancora i computer), su una carta molto bella, le fece rilegare e mi regalò quella che, a tutti gli effetti, fu la mia prima silloge. Il titolo era Cose…
Non scrivevo con regolarità. Anzi, ci furono anni in cui non scrissi niente e ogni tanto pensavo che non sarei stata più capace, o che forse non avevo più niente da dire. Mi sbagliavo: la creatività e il bisogno di scrivere tonarono nel difficilissimo periodo in cui mi arrovellavo tra due esigenze primarie e antitetiche: il bisogno di non reprimere più Sonia e quello di rimanere a vivere con la mia famiglia. In quegli anni scrissi le poesie che costituiscono la seconda sezione della silloge, Abissi, molte delle quali esprimono la lacerazione interiore, l’incertezza, ma anche il desiderio di riconciliarmi con mia moglie. Sono poesie che non parlano quasi mai in modo diretto di transessualità, anche se evidentemente la transessualità è il filo conduttore e la causa di tutto. La prima sezione, La pioggia bagnava le nuvole, raccoglie invece le poesie che ho scritto prima di essere consapevole di avere un problema di identità di genere. Il titolo di questa sezione è un verso di una poesia della seconda sezione che si riferisce alla mia vita precedente, vissuta al contrario, ossia al maschile, rispetto alla consapevolezza che avevo appena acquisito. Visto che sono una persona estremamente ottimista, e poiché in Abissi ci sono parecchie poesie cupe e sofferte, non mi piaceva terminare la silloge con questa sezione. Trovai la soluzione per caso quando l’anno scorso, poco prima di proporre il mio materiale agli editori, scrissi A volte…, una breve poesia che getta una luce di speranza sul mio futuro. Capii che la silloge si sarebbe chiusa con una terza sezione, Spiragli, costituita solo da questa breve composizione.
Ho sempre scritto per me e poche persone erano al corrente di questa mia attività letteraria. Per questo motivo spesso mi chiedevo se le mie poesie comunicassero qualcosa anche a chi non mi conosceva, perché rileggere i propri versi è un po’ come guardarsi allo specchio: indipendentemente dalla loro qualità e dal valore artistico, è facile ritrovare le emozioni vissute durante la stesura. Mi fa quindi molto piacere che siano state apprezzate anche da persone che non sanno niente di me.
La scrittura mi ha sicuramente aiutato molto, durante il lungo travaglio interiore, a tirare fuori quello che avevo dentro e ad esprimere le paure, i dubbi, i desideri che spesso facevano a botte tra di loro. In quel periodo mi assisteva una bravissima psicoanalista che quasi ogni volta, all’inizio delle sedute, mi domandava se avessi fatto sogni che le volevo raccontare. Dato che difficilmente ricordo i miei sogni, quasi sempre mi trovavo in difficoltà perché mi sembrava di essere la scolara che non ha fatto i compiti. Dato che in quel periodo scrivevo molto, quando non avevo sogni da raccontare spesso le portavo qualche nuova poesia. In particolare ricordo che Prendermi per mano divenne una specie di leitmotiv dei nostri incontri perché la psicologa spesso riprese le immagini di quella poesia (le catene, la donna imprigionata nelle segrete, il castello, il suo alter-ego maschile).
Secondo lei, in Italia, sono tutelati i diritti Lgbtqi?
La nostra società, negli ultimi dieci o vent’anni, ha fatto enormi passi avanti, ma non penso proprio che si possa dire che le persone appartenenti al variegato mondo Lgbtqi godano degli stessi diritti e abbiano le stesse opportunità di quelle eterosessuali. Io sono stata molto fortunata e, almeno finora, non ho mai subito discriminazioni. Conosco però parecchie persone che hanno una vita molto più difficile. È un discorso culturale molto complesso che richiede tempi di maturazione molto lunghi. Purtroppo ogni tanto la paura prevale in alcuni ambiti sociali e si fa uno scivolone indietro.
A me piace vestirmi in modo comune, ma spesso le persone Lgbtqi hanno look ricercati, creativi o in qualche caso volutamente di rottura, e mi sono sempre chiesta se questo modo di porsi nei confronti della società è una libera espressione del proprio io, o se invece possa essere in qualche modo una risposta al loro sentirsi rifiutati o discriminati indipendentemente dalla loro esteriorità. Conosco persone di entrambe le categorie e sicuramente alcune di esse hanno problemi nel mondo del lavoro o con i rapporti sociali anche se si vestono in modo del tutto normale. Non si può quindi concludere che basta vestirsi in modo comune per essere accettat*; anche fosse così, è più che evidente che questo costituirebbe una grandissima violazione della libertà di espressione di ogni individuo. Penso però che un look anticonvenzionale non aiuti l’integrazione. Dipende ovviamente dagli obiettivi che le persone e i gruppi sociali si pongono: i vestiti, i tatuaggi e il modo di ornare il proprio corpo sono prima di tutto un codice che da sempre l’umanità ha utilizzato per creare un’identità. Gli esempi sono innumerevoli a partire dalle società primitive. Spesso i giovani creano un look particolare per identificare il loro gruppo sociale: i primi esempi in tempi recenti che mi vengono in mente sono gli hippies degli anni ’60, il popolo di sinistra con le clark e l’eskimo o i punks degli anni ’70, tutti gruppi che non cercavano l’integrazione nella società, anzi, l’atteggiamento nei confronti di essa era quello dello scontro. Penso che faccia parte della natura umana provare più facilmente empatia nei confronti delle persone che hanno un look simile al nostro, e che sia l’assenza di pregiudizi e la curiosità di conoscere e di confrontarsi con persone che appaiono diverse da noi che ci permette di instaurare un dialogo con loro senza rifiutarle a priori, avendo l’obiettivo di accogliere nella cerca delle amicizie quelle con cui ci troviamo bene e che stimiamo indipendentemente da come si vestono. Non tutte le persone però hanno questa apertura mentale. Di conseguenza penso che sia una conseguenza inevitabile, che ovviamente non condivido, che le persone che hanno un look o un atteggiamento “sopra alle righe”, abbiano maggiori difficoltà ad integrarsi.
Infine: possiamo chiederle perché il nome Sonia per la sua nuova identità?
Onestamente non lo so: mi è venuto automaticamente. Mi piaceva un nome italiano che, almeno alle mie orecchie, suonasse in modo armonioso. Mai avrei scelto un nome aggressivo. Quando, non tanto tempo fa, ho letto che Sonia è una variante di Sofia, e che in greco sophia significa sapienza, saggezza, ho pensato: “WOW, ho scelto il nome giusto!”. Non perché mi senta particolarmente saggia, né tanto meno sapiente, ma perché sapienza e saggezza sono sicuramente due nobili obiettivi da perseguire.