“America latina. Diritti negati”. Tris di Covid-19: Venezuela, Cuba e Nicaragua
di Tini Codazzi
Poche notizie arrivano sulla situazione del Covid-19 in alcuni paesi dell’America Latina. Si conoscono le amare realtà in Brasile, Messico e Peru, ma poco si sa di Nicaragua, Cuba o Venezuela. Si presume che la crisi è grave. I dati forniti dai governi di questi paesi sono stati fin dall’inizio molto lontani dalla realtà.
Venezuela. Mercoledì 15 luglio la vicepresidente venezuelana Delcy Rodríguez dichiara in un comunicato stampa che nel paese ci sono 10.428 casi divisi così: 6.661 asintomatici, 577 con sintomi lievi, 16 con sintomi moderati e 24 in terapia intensiva. E i deceduti? Nemmeno una parola nella suddetta dichiarazione, comunque cifre ufficiali dicono che ci sono 96 decessi dall’inizio della pandemia. Cifra criticata dall’opposizione e da organizzazioni come Human Right Watch considerandole poco credibili. Il capo del regime Nicolás Maduro informò che istallerà un ospedale militare provvisorio nel parcheggio di un grande stadio alle porte di Caracas per ospitare i malati, il che significa che forse la cifra è maggiore e forse il governo non può continuare ad affermare che il Venezuela è forte e preparato per combattere il Covid. Anche del 15 luglio è la notizia che Caracas e tutta la zona metropolitana che comprende gran parte dello Stato Miranda è di nuovo in lockdown. Quali sono le ragioni? I casi stanno aumentando esponenzialmente perché la gente non segue i protocolli. Secondo le cifre ufficiali in quella zona del nord del paese si sono registrati fino al 15 luglio 889 casi. Quale è il commento generalizzato della popolazione rovesciata sulle strade soprattutto di mattina nonostante i pericoli? “Dobbiamo portare da mangiare a casa”, “Se non lavoro, non mangio”, “Come faccio a rimanere a casa? Chi mi aiuta, il governo? Devo uscire, altrimenti muoio di fame”. Questo dicono dalle zone più popolose e povere della capitale. La pandemia ha trovato pane per i suoi denti in un paese estremamente povero e in recessione da più di dieci anni. La malattia corre veloce nella cintura più povera della città, dove ci sono i famosi barrios, le baraccopoli dove in una cassetta piccola, fangosa e sporca senza elettricità, gas e acqua, mura di mattoni e tetto di zinco vivono tante persone che è impossibile censire. In un paese con un sistema sanitario precario e praticamente inesistente e una economia informale che fa sopravvivere all’incirca l’80% delle famiglie è impossibile rimanere a casa e rispettare il lockdown come si dovrebbe. Bisogna guadagnarsi il pane ogni giorno. È stato dimostrato che purtroppo il Covid non crea nessuna differenza per loro, perché non c’è alternativa.
Il governo, prima del lockdown di Caracas aveva annunciato il modello 7-7, cioè sette giorni di lavoro + sette giorni di quarantena, dove la quarantena dovrebbe essere rigorosa e disciplinata e sarebbe in atto in altre regioni del paese. Sembra che il regime si sia ispirato ad un simile modello messo in atto in Israele, ma Venezuela non ha le stesse condizioni tecnologiche, economiche, sanitarie e sociali di Israele e per di più ha una popolazione maggiore. In una intervista al giornale britannico BBC.com, il Dott. Jaime Torres esperto di epidemiologia all’Universidad Central de Venezuela assicura che: “l’esperienza in altri paesi indica che i risultati delle misure di confinamento iniziano a vedersi alle due settimane, per cui, l’alternanza settimanale che emerge in Venezuela potrebbe non essere sufficiente.” Secondo la ricerca della BBC non è stato comprovato il rapporto causa ed effetto. Da quando si è implementato questo modello, i contagi hanno aumentato.
L’aumento lo si può percepire nello Stato di Miranda dove c’è una baraccopoli chiamata Petare. Anticamente era un bel paesino coloniale alle porte della Caracas del est. Adesso, con molto orgoglio, alcuni dei loro abitanti sostengono che sia la baraccopoli più grande del Venezuela e una delle più popolose di America Latina e io aggiungerei delle più pericolose. Secondo l’ultimo censimento del 2011 Petare avrebbe una densità di 600.000 abitanti. Non sappiamo quanto è cambiato questo numero negli anni per l’emigrazione o per l’emergenza sanitaria, fatto sta che da quando c’è la crisi, questa zona è una delle più calde della nazione. Qui convivono, a volte in guerra a volte in pace, lavoratori, disoccupati, delinquenti, gang di narcotrafficanti, sostenitori del regime e gente onesta. Per le strade di Petare si vedono interminabili file di persone in attesa di un autobus o del camion che porta le bombole del gas, scene di botte per avere un bidone di acqua potabile, file lunghissime davanti agli alimentari e piccoli commerci, situazioni di assembramento nei mercati pubblici. Tutto senza distanziamento sociale, con poche mascherine e nessuna misura sanitaria. Come possiamo pensare che il Covid possa essere sotto controllo in mezzo alla sporcizia e l’anarchia più totale? Petare è soltanto una piccola fotografia del paese.
In Venezuela, l’apparato produttivo già depresso è totalmente fermo da quattro mesi, soltanto il settore alimentare e del farmaco hanno un leggero movimento economico per ragioni ovvie. Gli emigrati venezuelani che lavorano e/o vivono in Colombia, molti di loro contagiati, stanno tornando definitivamente in Venezuela. Preferiscono stare nella loro patria insieme ai loro cari e non continuare a vivere oltre la frontiera vista la realtà colombiana, dove anche la economia informale tipica dei nostri paesi si è vista penalizzata. Questa situazione coinvolge milioni di persone. Vuol dire che milioni di contagiati stanno tornando nel proprio paese senza sistema sanitario, senza organizzazione, senza soldi, senza cibo, senza, senza, senza.
Cuba. La situazione non è molto diversa dal Venezuela. Anche nell’isola l’informazione sui contagiati si potrebbe discutere. Secondo il Coronavirus Resourse Center dell’Università Johns Hopkins i numeri sono 2.438 di cui 87 decessi, cifra che coincide con quella diffusa dal Ministero della Salute Cubano. Il copione però a la Habana è quasi lo stesso: il governo annuncia che va tutto bene, i focolai sono sotto controllo, l’approvvigionamento di cibo e beni di prima necessità è a posto, ecc. La verità è che in molte zone del paese non c’è elettricità, nei supermercati mancano tanti prodotti, le medicine scarseggiano, le file davanti ai negozi si è duplicata, la povertà dilaga a macchia di leopardo per la chiusura delle frontiere e la mancanza di turismo, questo comporta lo stop di una economia molto importante per il paese. Quella gestita dai “cuentapropistas”, cioè i commercianti e piccoli imprenditori privati che avevano i loro affari collegati con il turismo (negozi di souvenir, di vestiti, servizi di taxi privati, imprenditori alberghieri, ristoratori, guide turistiche, ecc.) Queste persone si sono viste da un giorno all’altro il loro affare crollare e adesso non sanno come sopravvivere.
Tutti abbiamo visto la nostra vita cambiare radicalmente, la differenza è che in paesi come Cuba o Venezuela c’era già una forte crisi che teneva sotto torchio la popolazione, già si viveva male, già c’erano mancanze di ogni tipo, già c’era fame e già c’erano problemi collegati con le nuove tecnologie perché non in tutte le zone c’è internet e non in tutte le zone ci sono computer nelle case e non in tutte le zone c’è la possibilità e la conoscenza di fare shopping online… Adesso la pandemia ha accentuato la crisi ancora di più in tutti i settori. Per tornare a Cuba, la meravigliosa città di La Habana è sempre più in rovine ed è sempre più sporca, cosa che non aiuta a controllare il virus. Come si vede è tutto simile al Venezuela e quindi il Covid molto presente. A turni, i quartieri de La Habana vengono messi in quarantena per i focolai. Nonostante la crisi e per combattere il dilagare del virus, ci sono delle brigate di studenti di medicina e odontoiatri che girano l’isola con l’obbiettivo di trovare possibili focolai e/o contagiati, si chiamano “indagini casa per casa”. Questo modello sembra funzionare ed è stato considerato dall’Organizzazione Panamericana della Salute come una strategia aggressiva ma positiva che sembra avere dei buoni risultati. Sembrerebbe una buona notizia.
Nicaragua. La situazione nel paese del centroamerica pare più chiara e anche più complessa. Sembra evidente dalle notizie sui giornali e dalle denunce dei cittadini e politici dell’opposizione che Daniel Ortega abbia gestito molto male la pandemia. Insieme alla crisi economica già esistente, alle costanti denunce di violazioni dei diritti umani e alle sanzioni messe in atto dagli Stati Uniti, Nicaragua è gravemente colpita e la popolarità di Ortega e della moglie Rosario Murillo, sono a terra. Il 19 luglio si celebra il trionfo della Rivoluzione Sandinista e da quando è al potere Ortega lo celebra alla grande, con parate e concerti. Quest’anno il virus ha preso il sopravento e il presidente è addirittura scomparso, sono 38 giorni che non si fa vedere, così com’è successo all’inizio della crisi. Perché scompare ogni tanto? Gli oltraggi alla cittadinanza e al personale della salute da parte del regime si sommano a quelli storici: parecchio personale sanitario è stato licenziato a causa delle denunce per i problemi che incontravano nelle loro sedi di lavoro, problemi che vanno dal controllo dei test, al rifornimento dei sistemi di sicurezza per pazienti e personale, tutto gestito male dal governo per nascondere il numero reale di contagiati e la malasanità. Ci sono dubbi sulla quantità di tamponi fatti e i risultati. L’informazione proveniente dal laboratorio nazionale del Ministero della Salute è molto confusa secondo Human Right Wacht, CNN e altri mezzi di stampa che cercano chiarimenti. La Commissione di Giustizia e Pace dell’Arcidiocesi di Managua insieme all’Osservatorio Cittadino fanno l’ennesima denuncia: riportano a fine giugno la cifra di 6.775 casi e 1.878 decessi, in contrasto con le cifre del governo di Ortega: 2.519 casi e 83 decessi. Inoltre, l’Osservatorio Cittadino parla di 78 decessi per Covid-19 nel personale sanitario: 34 medici, 21 infermieri e 11 nel personale amministrativo. Il governo tace e non ha riconosciuto che tra i sanitari ci sia nemmeno una morte.
Sono iniziate a girare in Facebook e Twitter immagini di funerali clandestini molto sospetti e nel bel mezzo della notte. Più di una persona ha denunciato di aver ricevuto una chiamata dall’ospedale pubblico dov’era ricoverato un parente, informando della morte del proprio caro. Una volta arrivata all’obitorio per riconoscere e ritirare il corpo, la notizia allucinante da parte del personale che il corpo era già stato seppellito. Si chiama “procedimento di sepoltura express”, senza rispettare i protocolli che si dovrebbero seguire per seppellire un malato di virus e nella totale illegalità e mancanza di rispetto verso i famigliari, il personale del Ministero, o dei laboratori, o degli ospedali pubblici… non si sa bene chi siano queste persone, mettono i corpi in sacchetti di plastica e in bare sigillate improvvisate ed entro tre ore dalla morte, senza la presenza dei parenti, fanno sparire sotto terra i corpi. Perché fare tutto ciò se le dichiarazioni di morte emesse dagli ospedali dicono che le cause sono infarto, polmonite o pneumonia “normale”, diabete, ecc. e cioè cause naturali che non c’entrano con il Covid-19? Cosa c’è da nascondere? Dopo tante denunce hanno smesso di compiere questi funerali anomali.
Gli orrori che si vedono a Petare, le difficoltà che vivono gli abitanti dell’Habana o la tragedia che vivono i parenti di malati deceduti a Managua sono soltanto degli esempi che dimostrano che in quei paesi regna il caos e la totale disinformazione, dimostrano anche che non c’è uno stato solido, un ente governativo che possa aiutare la popolazione a fronteggiare la pandemia. Non ci sono alcuni casi isolati, non ci sono alcuni problemi, non ci sono alcuni politici incapaci e corrotti. È un 100% di tutto: di casi critici, di problemi, di politici incapaci e corrotti, di mancanze, di arbitrarietà, di ingiustizie.