Aggiornamento #Libano
(Da Anmbamed di Farid Adly)
Manifestazioni a Beirut per il terzo giorno consecutivo. Scontri con la polizia nella piazza dei Martiri, nel centro della città. “Punire i responsabili ed i primi tra coloro si siedono sulle poltrone del governo e del Parlamento”, hanno scritto nei cartelli. “Negligenza e corruzione sono le cause della strage”, annunciano altri. La richiesta è la caduta del governo e elezioni anticipate subito. Pietre contro lacrimogeni e pallottole di gomma. I manifestanti hanno tentato di raggiungere la sede del Parlamento, scavalcando le transenne, ma sono stati respinti. Nei video postati sui social è stato notato un principio di incendio nelle vicinanze del palazzo del Parlamento, ma è stato subito domato dai vigili del fuoco. La situazione politica nel paese sta precipitando. Si sono dimessi due ministri: quella dell’Informazione, Manal Abdulsamad, e dell’ambiente, Dimanus Qattar. Abdulsamad ha spiegato la sua decisione per l’incapacità di rispondere alla volontà popolare di un passo di cambio nella gestione del potere. 11 i deputati che si sono dimessi dall’incarico.
Il confronto politico è sulla natura dell’inchiesta sulla strage. I partiti dell’opposizione, Saad Hariri (sunniti), Walid Jumblat (Socialisti) e una parte dei partiti cristiani chiedono un’inchiesta internazionale. I partiti al governo (Hezbollah, una parte dei sunniti e i cristiani seguaci del presidente Aoun) vogliono mantenere il carattere nazionale alla vicenda. Il timore dei primi è che venga insabbiata l’inchiesta; quello dei contrari è che vengano scoperte responsabilità politiche dei diversi governi che si sono succeduti negli ultimi anni.
Sulla questione si è espresso anche il patriarca maronita, nel sermone della Domenica, chiedendo le dimissioni del governo, elezioni anticipate e inchiesta internazionale.
Un altro tema nel dibattito politico libanese è il disarmo di Hezbollah; tema questo che rischia di avvelenare le acque e portare il paese allo scontro confessionale e alla guerra civile.
Le ricerche dei dispersi sono praticamente concluse. Il capo delle squadre ha affermato che “non ci sono più speranze di trovare altre persone vive sotto le macerie. Rimaniamo a lavorare per la rimozione delle macerie e liberare le strade”. Il numero totale delle vittime sale quindi a 208 morti.
Sul piano internazionale, la Conferenza di Parigi dei paesi donatori, promossa dalla Francia e dall’ONU, non sembra aver trovato il successo sperato. Di fronte ad una valutazione del danno di 15 miliardi di dollari, gli aiuti promessi sono di 250 milioni e “condizionati alla fornitura diretta degli aiuti alla popolazione, per evitare corruzione e clientelismo. Non daremo carta bianca al sistema politico libanese”, ha sentenziato il presidente Macron.
IL premier libanese Diyab ha presentato le sue dimissioni, dopo le proteste popolari e le dimissioni di 4 ministri e 11 deputati dai loro incarichi. Lo ha fatto con dignità, sostenendo le rivendicazioni della piazza, ma mettendo con dignità i punti sugli i: “Siamo qui a guidare il paese da pochi mesi, ma ci siamo accorti che il sistema corrotto è uno Stato nello Stato. Siamo per la punizione di chi ha sbagliato, per una vicenda che dura da 7 anni… Tra coloro che hanno chiesto le nostre dimissioni ci sono politici che hanno governato per molto più tempo di questo governo tecnico. Non c’è limite alla vergogna”. La frecciata è rivolta senza nominarli all’ex premier Saad Hariri, ai ministri di governi passati che siedono nelle istituzioni bancarie e finanziarie. Il presidente Aoun lo ha incaricato degli affari correnti e inizierà le consultazioni per una nuova nomina o elezioni anticipate. La crisi libanese è complessa, perché il sistema politico è marcio e fondato non sulla cittadinanza, ma sull’appartenenza alle confessioni. Una delle richieste delle manifestazioni di piazza, che durano dello scorso 17 Ottobre, è proprio la fine della spartizione confessionale della politica e delle poltrone. Una rivendicazione che dura dai tempi della guerra civile durata dal 1975 al 1990. Ma il sistema è riuscito, a causa dell’interferenza anche di fattori esterni, a impedire il cambiamento. La strage del porto è dato il colpo di grazia al sistema corrotto, ma probabilmente anche alle speranza di cambiamento e di fronte al Libano si apre un periodo molto difficile pieno di incognite.
Il paese è sulla bocca di un vulcano e rischia di finire nell’uragano degli scontri regionali e internazionali: lo scontro tra l’iran e Israele e Stati Uniti, la lotta tra Turchia e Qatar da una parte e Arabia Saudita e Emirati arabi uniti dall’altra. E anche qua non manca lo zampino della Turchia, che sfida sul terreno delle influenze la Francia. Nel paese inoltre vivono circa due milioni di profughi palestinesi e siriani, con il dramma dei loro paesi dove, in uno c’è una guerra civile e l’altro è sottoposto ad un’occupazione militare. La guerra tra Israele e Siria si gioca anche sul territorio libanese.
Il Libano si è barcamenato finora in un equilibrio instabile, dichiarando la sua neutralità. Una condizione impossibile in un mare di contraddizioni come lo è il Vicino Oriente. Le pressioni politiche ed economiche messe in campo da Washington e Riad nascono dalla volontà di escludere Hezbollah dal governo. Ma senza questo movimento, non ci sarebbe una maggioranza in Parlamento. Hezbollah è un partito e allo stesso tempo un movimento armato di resistenza contro Israele ed è nel campo dell’Iran e del presidente siriano Bashar Assad. Suoi 4 aderenti sono accusati per l’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri e processati in contumacia al Tribunale speciale dell’Aja, che doveva emettere la sentenza lo scorso Venerdì. In passato, le condizioni politiche hanno costretto lo stesso Saad Hariri, figlio di Rafiq e capo del Partito Al Mustqbal (Futuro), a presiedere un governo di coalizione con Hezbollah. Condizioni che adesso non ci saranno più.
Durante la conferenza dei paesi donatori, si è vista la debolezza del governo attuale, che è stato escluso dal poter gestire gli aiuti internazionali, che andranno direttamente alle organizzazioni non governative libanesi ed agli organismi internazionali dell’ONU.
Le variabili sono molte e il presidente francese Macron ha accennato ad una di queste rivolgendosi al presidente USA Trump: “Le sanzioni rischiano di complicare il quadro politico libanese, invece di risolverlo”. Le sanzioni all’Iran, che toccano Hezbollah, intende. Per non far crollare il paese dei cedri, Parigi indica un governo di unità nazionale, per una riforma costituzionale.
Sarà capace la società civile libanese, che ha condotto le lotte di piazza, in modo civile e misurato, di proseguire su questo sentiero accidentato? Una riforma costituzionale ha bisogno di un Parlamento non spartito tra le confessioni ed una legge elettorale democratica: ogni testa un voto.
E’ una lotta impari, che si svolge in condizioni molto più difficili in una situazione economica disastrosa e un clima internazionale polarizzato, che non lascia spazi di manovra.
Dalle ceneri del porto, potrebbe nascere il nuovo Libano, ma non si vedono in campo le forze per portarlo a termine.