“LibriLiberi”. Intervista ad Adrian N. Bravi
Di Alessandra Montesanto
Da poco uscito per Quodlibet l’ultimo romanzo dello scrittore Adrian N. Bravi, argentino di nascita, ma che vive e lavora in Italia da tempo: IL LEVITATORE.
Si raccontano in questo romanzo le avventure tragicomiche di Anteo Aldobrandi e le sue levitazioni, iniziate un bel giorno senza preavviso all’età di quattordici anni. Sono passati trent’anni: da allora non ha mai smesso di levitare e di sperimentare quella forza cosmica che lo tira su. Un giorno, però, sempre senza preavviso, un postino gli consegna una busta verde pastello contenente una denuncia della sua ex moglie. Da quel giorno Anteo si trova a dover fare i conti con una realtà sempre più schiacciante. Tenta di tutto per tornare a levitare, ma fallisce ogni volta, mentre le buste verde pastello, che continuano ad arrivargli una dietro l’altra, lo tengono sempre più ancorato alla terra, invischiato in un processo penale di cui non capirà mai fino in fondo le accuse. Tuttavia, come dice il suo amico orologiaio, l’arte della levitazione non si perde mai: «ti sembra che scompaia, ma alla fine, quando meno te l’aspetti, te la ritrovi sotto i piedi».
Associazione Per i Diritti umani ha intervistato ADRIAN BRAVI e lo ringrazia molto per la disponibilità
Il suo primo romanzo, L’inondazione, narra di un villaggio allagato e di un vecchio che vuole resistere a tutti i costi: da dove nasce questa storia?
Fino ai quattro anni ho vissuto in una casa che si trovava vicino a un fiume, il Luján, nella città di San Fernando e casa nostra (abitavo con i miei e una nonna) si allegava sempre quando straripava il fiume. A me, che ero piccolo, mettevano sopra un tavolo e si aspettava il rientro delle acque. Sono cose che mi raccontavano, perché di quegli anni non ho ricordi (qualche immagine sfuocata che mi è rimasta in testa, nient’altro). In questo libro, L’inondazione, uscito nel 2015, ho cercato di ricostruire attraverso la finzione una storia radicata nella mia prima infanzia. E poi, aggiungo, l’idea di Morales, un anziano che nonostante l’acqua e lo svuotamento del paese, decide di restare, mi piaceva molto. Mi piacciono le persone che sanno restare nel proprio posto nonostante le avversità, il contrario di quello che ho fatto io.
Descrive, nei suoi libri, una realtà spesso al limite del surreale: questo stile deriva dal suo carattere o dalla cultura di nascita?
Non lo so, forse da entrambi. Ho sempre osservato con molto interesse le ossessioni delle persone, quei chiodi fissi che li portano a diventare monomaniaci, come, d’altronde, lo sono io. Credo che in questi tic ci sia un grande espediente narrativo. E se uno li guarda con una lente d’ingrandimento non possono che diventare surreali e grotteschi. Il mio mondo narrativo è fatto di quotidianità, ma un po’ distorta.
Nelle sue pagine ricorre il tema della Giustizia, ma quali sono gli altri argomenti a lei cari?
È vero, la giustizia, o meglio, l’ingiustizia, nelle sue varie declinazioni, credo ricorra spesso nei miei libri. A volte l’ingiustizia ha a che fare con gesti minimi (come chi spettina senza ragione chi ha finito di acconciarsi un riporto in testa), altre volte è l’ingiustizia di una guerra assurda come quella tra l’Argentina e l’Inghilterra che ho provato a raccontare in Sud 1982, un libro del 2008.
Il suo ultimo lavoro – Il levitatore, edito da Quodlibet Compagnia Extra – racconta di un uomo, Anteo, che vive con la sua cagnolina… Cos’è, per lei, la solitudine?
In questo libro, per concludere la domanda di sopra, l’ingiustizia di un’accusa infondata diventa quasi il punto centrale intorno al quale ruota tutta la storia.
La solitudine. Non so bene cosa sia. È difficile da definire senza fare riferimento alla propria vita e io, nella mia intimità, mi sento abbastanza solo. Come chi dice di sentirsi felicemente infelice, io direi di sentirmi allegramente solo. Tutti i miei personaggi, se posso fare un autoriferimento, sono personaggi solitari, che vivono da soli o, nei peggiori dei casi, soli ma in compagnia. Costruiscono il loro mondo in solitudine, attraverso la levitazione o la pulizia di casa, ecc.
E poi Anteo inizia a levitare: spesso parla di quella dimensione “a metà”, tra terra e cielo, tra sopra e sotto… Perché questa scelta?
La levitazione, anche quando uno si stacca da poco da terra, presuppone un’ascesa verso l’alto. Ho scelto di parlare di un levitatore perché ormai, da quando i santi e psicocinesi sono andati in pensione, nessuno pratica più la levitazione. È un arte in disuso, relegata ingiustamente al soprannaturale, senza sapere che può diventare una pratica naturale, come l’arte del trapezio, per esempio. Sono secoli che la gente non riesce più a sgravitarsi e viviamo inchiodati in una realtà che ci schiaccia sempre di più.