Anbamed, notizie dal Sud Est del Mediterraneo
a cura di Farid Adly
I titoli
Tunisia: commemorato il decimo anniversario della rivolta dei gelsomini
Libia: liberi dopo 107 giorni i marinai di Mazara del Vallo
Libia 2: recuperati i corpi di 20 migranti al largo di Zawia
Iran: la moglie di Reza Jallali chiede a Teheran il suo rilascio
Algeria: adesione alla zona di libero scambio africana
Palestina: torna alla ribalta il tentativo di insabbiare la causa per la morte di Israa Ghareeb, assassinata dai parenti
Le notizie
Tunisia:
È stata commemorata a Sidi Bouzid in Tunisia la figura di Mohammed Bouazizi, il giovane venditore ambulante che si era suicidato come atto estremo di protesta contro le angherie del potere e con quel suo gesto ha innescato le rivolte popolari contro le dittature. Un monumento in piazza centrale di fronte al Municipio, raffigura un gigante caretto e una gigantografia del volto di Abouazizi. In diverse località si sono avuti scontri con la polizia. La gente a 10 anni dalle Primavere arabe, è ancora in difficoltà economiche, particolar modo nelle zone interne. L’esercito ha informato che 4 soldati sono rimasti feriti durante il tentativo di impedire l’occupazione della fabbrica Sergaz, per il riempimento delle bombole di gas. Le industrie di importanza strategica sono stati presidiati dall’esercito.
Libia:
dopo 107 giorni sono stati liberati i marinai di Mazara del Vallo, arrestati a Bengasi, accusati di aver violato le acque territoriali libiche. I componenti dell’equipaggio (Italiani, tunisini, pakistani e bengalesi) sono stati trattenuti in Libia in modo coercitivo e arbitrario. Ammesso che abbiano violato le acque territoriali, la questione sarebbe potuto risolverla con una multa. Una misura ingiusta ed aveva tutto il carattere politico. La loro liberazione è avvenuta dopo la visita lampo del premier Conte e del ministro degli esteri Di Maio che si sono incontrati con il generale Khalife Haftar. Argomento delle discussioni – secondo fonti libiche – è stato quello della presenza dei militari italiani a Misurata, che operano in addestramento delle milizie del governo di Tripoli.
Libia 2:
sono stati recuperati 20 corpi di migranti morti in mare di fronte alle coste di Zawia, ad ovest della capitale. Lo ha denunciato la Mezzaluna rossa libica che ha operato i soccorsi sulla spiaggia cittadina, dopo che i corpi sono stati riportati dai pescatori. A Zawia, il capo della Guardia Costiera è finito nella lista nera dell’ONU tra gli accusati di traffico di esseri umani. Di giorno guardie e di notte scafisti con il finanziamento pubblico del governo di Tripoli.
Iran:
La moglie di Reza Jallali, Vida Mehrannia, ha rivolto un appello alle autorità iraniane di salvare la vita del padre dei suoi figli, perché è innocente. Jallali è stato condannato a morte per spionaggio a favore di Stati Uniti e Israele, accuse che lui respinge assolutamente. Un medico di fama internazionale che è specializzato in cure di emergenza in caso di attacchi nucleari, le autorità di Teheran lo hanno tratto in trappola, nel 2017, con invito ufficiale dell’Università di Teheran per una serie di conferenze. La condanna è stata confermata in appello, ma all’inizio di questo mese, le autorità hanno sospeso l’esecuzione dopo le pressioni internazionali. Reza si trova tuttora in isolamento nel braccio della morte del carcere di Rajai Shahr.
Algeria:
L’Algeria entrerà dal primo gennaio 2021 nell’Area continentale africana di libero scambio (AfCFTA), istituita a Kigali, in Ruanda, nel 2018 e che raggruppa 49 dei 55 paesi africani. L’accordo rafforzerà lo scambio economico e commerciale tra i paesi africani. Gli sforzi dell’Algeria per far fronte a questa nuova sfida si sono concentrati in due opere del settore trasporti: il porto di Hmediania a 50 km a ovest della capitale e il completamento dell’autostrada inter sahariana. Attualmente l’interscambio algerino con il resto dell’Africa rappresenta soltanto il 3% del totale import-export algerino.
Palestina:
È in corso una mobilitazione contro l’insabbiamento del processo sul caso di assassinio di una ragazza ventenne, avvenuto in famiglia due anni fa. Israa Ghareeb aveva postato su Instagram la foto di lei con un ragazzo, annunciando che si sta preparando al matrimonio. Il giorno dopo è stata trovata morta nel suo letto. La famiglia sostiene che sia caduta dal balcone, ma il gruppo dei medici legali ha asserito che sarebbe morta in seguito a percosse. Sono stati arrestati 3 uomini della famiglia. Le preoccupazioni dei movimenti palestinesi di difesa delle donne dalla violenza domestica sono state accresciute dalle recenti dimissioni dell’equipe medica che ha espresso un parere che incastra i sospettati dell’assassinio. Ci sarebbero state delle pressioni perché cambiassero risultati dell’autopsia. Ci sarebbe in corso anche un tentativo di derubricare l’assassinio in “delitto d’onore”. Le autorità giudiziarie e la polizia dell’ANP hanno chiesto il silenzio stampa, “per rispetto della privacy della famiglia”. Le attiviste donne palestinesi non ci stanno.
Il dilemma tra colonizzazione e pace
di Eric Salerno
Itzhak Rabin era uno dei tanti generali passati alla politica in Israele. “Se i palestinesi riconosceranno Israele, io parlerò con i palestinesi”, mi disse negli anni Ottanta in uno dei nostri incontri nel suo ufficio al ministero della Difesa a Tel Aviv. E quando Arafat, a sorpresa, lo fece in un famoso discorso ad Algeri, i negoziati a distanza, cauti e segreti, cominciarono. Dietro le quinte, purtroppo, agivano due forze ineguali e contrapposte. Da una parte Hamas, (inizialmente finanziata dai servizi segreti di Tel Aviv) che lotta per eliminare Israele dalla carta geografica; dall’altra la parte maggioritaria della leadership israeliana, anche a sinistra, che mirava e mira ancora ad arrivare al vecchio progetto sionista di uno stato ebraico dal Mediterraneo al fiume Giordano. Quelle due visioni hanno un elemento, diciamo filosofico, in comune: “Sarà il tempo a decidere”. Me lo spiegò un anziano palestinese triste e rassegnato in un villaggio a ridosso di Gerusalemme. “Gli ebrei sono tornati dopo duemila anni. Anche noi possiamo aspettare”.
Aspettare? Oggi, a giudicare da come sta cambiando rapidamente la scena in Medio Oriente, il futuro del popolo palestinese è sempre più un grande punto interrogativo. Giustamente dal suo punto di vista, Gideon Levy, uno dei più severi critici (su Haaretz) della politica interna ed estera del suo paese, si dice felice quando vede alcuni paesi arabi, peraltro mai stati formalmente in guerra con Israele, avanzare verso relazioni normali. La monarchia del Morocco, l’ultimo a “normalizzare” le relazioni, è sempre stato un alleato silenzioso del “nemico sionista”. Tutti gli altri paesi arabi hanno mantenuto distanze formali da Israele ma soltanto i giovani possono non sapere che la causa palestinese è almeno da quaranta anni l’ultima delle loro preoccupazioni. E questo ci porta alla realtà. E a un’intervista in cui Rabin, nel 1976, criticando le scelte del suo compagno di partito (laburista) Shimon Peres, paragonò il movimento nascente dei coloni che si stavano istallando nei territori della Cisgiordania appena conquistati, a “un cancro”. Israele, disse allora, rischiava di diventare uno stato simile al Sudafrica dell’apartheid se avesse annesso e assorbito la popolazione araba caduta sotto il suo controllo.
L’annessione formale, che il premier Netanyahu minacciava, è stata accantonata in cambio delle aperture arabe ma la colonizzazione strisciante sta accelerando. Nuove case per i coloni, nuovi quartieri a Gerusalemme per staccare quelli arabi a Est da Betlemme, nuove autostrade nei territori occupati per consolidare la presenza ebraica israeliana e distanziarla strategicamente il più possibile dalla popolazione palestinese. Ormai molti israeliani, non soltanto a sinistra, capiscono che il loro futuro andando avanti di questo passo significa fare parte di uno stato che assomiglia sempre di più al Sudafrica razzista di una volta. Se la leadership palestinese è stanca e incapace di offrire un progetto di lotta pacifica, quella israeliana, anche a sinistra, è paralizzata.
E’ stato un amico ebreo italiano a cui mostravo un anno fa la realtà degli insediamenti – città non certo fattorie agricole come fa pensare la parola “coloni” – a spiegarmi il dilemma della sinistra sionista. “Molti di noi sarebbero teoricamente, forse anche ideologicamente, per uno stato bi-nazionale con pieni diritti per i suoi cittadini. Dall’altra parte, quella formula sarebbe la fine dello stato per gli ebrei che i nostri padri e nonni sognavano”. Cosa fare? Aspettare? Voglio credere che la nuova generazione di palestinesi nei territori occupati si sia resa conto, ormai, che attendere gioca soltanto a favore di Israele e dell’urgenza, attraverso una leadership nuova non ancorata negli slogan del passato, di quanto meno bloccare il processo di colonizzazione.