“Stay human. Africa”. Niger, migranti tra miniere di oro e uranio
di Veronica Tedeschi
Uno dei Paesi più poveri al mondo, nel quale il problema della migrazione vede i suoi massimi livelli di illegalità. Il Niger, negli ultimi anni, sta assistendo a delle piccole crescite economiche, instabili e non continue ma che hanno prodotto una piccola riapertura dell’economia locale.
Al fianco di questa situazione vediamo un paese che si trova tra i primi produttori ed esportatori di uranio e oro, due ricche materie prime che però viaggiano separatamente. Partendo dall’uranio, per il quale il Niger è il quarto produttore mondiale, possiamo affermare che la sua produzione si trova in un momento di crisi.
La Compagnia mineraria d’Akouta chiuderà la sua produzione nel marzo 2021 (i suoi costi di produzione sono insostenibili: si aggirano sui 76 euro al chilo, quando il prezzo dell’uranio è di soli 54 euro). Anche la Società delle miniere dell’Aïr è ormai a fine vita, e ha già fortemente ridotto la produzione.
In questo incerto scenario, ci sono però altre miniere che incrementano le loro produzioni, quelle del settore aurifero. A fianco dell’estrazione industriale, che assicura una produzione annua nell’ordine della tonnellata, dal 2010 si assiste a una vera e propria corsa all’oro nel Nord, nelle regioni di Tchibarakaten e dell’altopiano di Djado, alla frontiera con la Libia e l’Algeria. Tutto questo ovviamente sta portando a conseguenze violente, con finanziamenti a banditi e al traffico d’armi. L’International Crisis Group (Icg) solleva forti sospetti che dei gruppi armati, anche jihadisti, abbiano trovato un terreno di reclutamento nello sfruttamento aurifero artigianale. Non meno di 300.000, sempre secondo l’Igc, sarebbero i cercatori d’oro artigianali in Niger. La ricerca dell’oro è considerata un’attività permessa da Allah, e, secondo l’Igc, nei siti minerari del dipartimento di Torodi sono stati pronunciati sermoni jihadisti che esortavano al rispetto della sharia.
Ultima materia che sarebbe in grado di arricchire il Niger è il petrolio, la cui produzione è ad oggi modesta ma che potrebbe triplicare nell’arco di un anno. È, infatti, stato costruito un oleodotto di 2.000 km ad Agadem ed è stata sottoscritta una convenzione con la China National Oil and Gas Exploration and Development Corporation per lo sviluppo di questo settore.
Tutte queste evoluzioni economiche del paese non sortiscono in realtà l’effetto desiderato, dato che il Niger deve dedicare il 18% del suo bilancio alla sicurezza, minacciata dal terrorismo su tre fronti. Già nel 2013 un’autobomba danneggiò lo stabilimento della miniera d’uranio di Arlit, uccidendo un dipendente e ferendo quattordici lavoratori. La produzione rimase interrotta per quattro settimane. Il 25 ottobre, il governo ha vietato gli spostamenti senza scorta militare delle organizzazioni umanitarie nelle regioni di Tillabéry e di Tahoua, che ospitano 150.000 rifugiati e sfollati in seguito a violenze che hanno fatto centinaia di morti. Nel Sud-est, si moltiplicano gli attacchi di Boko Haram, insediato nel Nord della Nigeria e nelle isole del Lago Ciad. Secondo l’Onu, tra gennaio e agosto del 2019 sono state rapite 179 persone. L’insicurezza ha obbligato Medici senza frontiere a lasciare la città di Maine-Soroa.
Ad oggi, quindi, la situazione vede quasi 450.000 rifugiati e sfollati presi in trappola, spinti fuori dalle aree flagellate dalla violenza, come il Nord della Nigeria o il Mali, e sempre più in difficoltà per raggiungere la Libia e l’Europa. Una situazione di instabilità per tutta la popolazione che deve resistere alle violenze del terrorismo e alle usurpazioni di materie prime che, se gestite in maniera saggia, potrebbero rendere più stabile e ricco l’intero paese.