Uiguri, un popolo in pericolo tra propaganda e realtà
Di Maddalena Formica
Negli ultimi mesi, sfondi azzurri e hashtag #freeuyghurs si sono moltiplicati sui social network di celebrità e non solo, portando all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale una questione made in China di privazione di diritti umani con pochi precedenti.
Ma chi sono gli Uiguri? E quali sono le poche informazioni che giungono dalla Cina in merito alla loro situazione?
Gli Uiguri sono un gruppo etnico minoritario, di lingua turca e di religione musulmana, che abitano prevalentemente nella Regione autonoma dello Xinjiang, nella Cina nordoccidentale, tappa fondamentale della Belt and Road Initiative, la nuova via della Seta. Questo territorio è stato, a partire dal 2009, teatro di sanguinosi scontri etnico-religiosi tra Uiguri e Han, che rappresentano invece l’etnia maggioritaria in Cina, scontri che hanno spinto il Governo cinese a reprimere pesantemente quelli che, per le fonti ufficiali, sono ideali di separatismo e estremismo islamico del popolo uiguro.
Con l’annunciato obiettivo, dunque, di prevenire e condannare il terrorismo religioso e le aspirazioni di indipendenza della regione, il Governo ha adottato politiche sempre più pesanti che si sono tradotte in un vero e proprio genocidio culturale di questo popolo.
Poche sono le informazioni che giungono dalla Cina e ancor meno sono i giornalisti che possono accedere ai documenti ufficiali, ma le voci di Uiguri esiliati o scappati all’estero permettono di ricostruire una situazione particolarmente complessa e più grave di quanto non fosse stata immaginata fino a un paio di anni fa.
I CAMPI DI DETENZIONE: LA VERITÀ NASCOSTA DAL GOVERNO
Secondo le stime di ONG e di esperti, più di 1 milione di Uiguri, il 10% della popolazione totale, sono infatti detenuti in “campi di rieducazione”, riconosciuti ufficialmente dal Governo cinese solo nel 2018 come semplici centri liberi e volontari di insegnamento e formazione professionali per aiutare gli appartenenti a minoranze a trovare un lavoro, uscire dalla povertà e a evitare una loro radicalizzazione religiosa.
Testimonianze di Uiguri liberati hanno però smentito i video e le descrizioni propagandistiche del Governo e accenni a detenzioni arbitrarie di intere famiglie, torture, persone scomparse e diritti umani calpestati quotidianamente sono stati riportati da ONG e governi di tutto il mondo.
Centinaia sono i campi che sono stati costruiti negli ultimi anni e sempre di più sono quelli rilevati da immagini satellitari della regione dello Xinjiang, dove ogni giorno migliaia e migliaia di Uiguri subiscono violenze fisiche e psicologiche in un’operazione di indottrinamento su larga scala, costretti a imparare il cinese mandarino, la cultura e la storia cinesi, a intonare slogan di fedeltà al Partito Comunista e a fare “autocritica”, a pena di punizioni fisiche.
Oltre a pratiche di tortura e “lavaggio del cervello”, diverse testimoni dei campi hanno affermato di essere state sottoposte a interruzioni di gravidanza e sterilizzazioni forzate o di essere state allontanate dai figli, condotti a loro volte in orfanotrofi o abbandonati a loro stessi, e in diversi campi il lavoro forzato dei detenuti viene sfruttato in industrie interne e esterne ai campi.
Se il tutto è ufficialmente condotto nel nome della lotta al terrorismo islamico, al separatismo e alla povertà, nella pratica migliaia di persone sono detenute per il semplice fatto di avere un parente all’estero o di essersi fatto crescere la barba e evidente sembra essere l’obiettivo del Governo: l’assimilazione culturale forzata di questo popolo ai dettami e principi del Partito Comunista Cinese.
OLTRE I CAMPI, I DIRITTI NEGATI IN NOME DELLA SICUREZZA E DEL’UNITÀ
Anche al difuori dei campi di detenzione, gli Uiguri vedono i propri diritti e libertà sensibilmente limitati: nel nome della sicurezza e del mantenimento della stabilità nella regione dello Xinjiang, il Governo cinese sta sviluppando da anni tecnologie che permettano di individuare e schedare gli appartenenti all’etnia uigura per mezzo del riconoscimento facciale e della raccolta di materiale genetico. I pochi stranieri a cui è stato permesso il transito nella regione hanno inoltre testimoniato la massiccia presenza di telecamere di sicurezza, sistemi di monitoraggio intelligenti e posti di blocco della polizia ogni pochi metri, in luoghi aperti e chiusi, oltre che dispositivi di localizzazione GPS obbligatori per tutti i veicoli.
Oltre a questi meccanismi di controllo dei movimenti degli Uiguri, che possono facilmente condurli alla detenzione nei già citati “campi di rieducazione”, altre misure concrete sono state adottate dal Governo nella ricerca della massima assimilazione di questo popolo alla cultura cinese, sul fondamento dell’unità nazionale: moschee e cimiteri musulmani sono stati distrutti, incentivi economici per coppie interetniche sono stati riconosciuti, le ore di lingua e cultura uigure nelle scuole ridotte e i nomi propri di origine musulmana vietati.
LE REAZIONI: COSA POSSIAMO FARE?
Se questa drammatica situazione fino a pochi anni fa era del tutto sconosciuta, oggi, grazie al lavoro di giornalisti e militanti per i diritti umani, in particolare dalla pubblicazione dei Xinjiang Papers da parte del New York Times nel novembre 2019, è sempre più nota all’opinione pubblica.
Se da un lato la Cina nega queste sproporzionate e ingiustificate privazioni di libertà e i campi stessi sono nella propaganda governativa descritti come semplici centri formativi e professionali su base volontaria, le ONG, i governi e le organizzazioni internazionali denunciano con forza queste azioni contro l’etnia uigura e altre minoranze musulmane, come kazaki e kirghisi. Oltre a pressioni diplomatiche, nonostante la Cina non abbia firmato lo Statuto di Roma, è stato minacciato l’intervento della Corte Penale Internazionale, in particolare per le pratiche di sterilizzazione che potrebbero costituire il crimine di genocidio demografico che si aggiungerebbe a quello culturale. L’Unione europea stessa, infine, in una recente risoluzione del Parlamento europeo del 17 dicembre 2020, ha condannato queste pratiche e ha chiesto espressamente al Governo cinese di porre fine a questa situazione di violazione sistematica dei diritti umani.
Ma cosa possiamo fare noi, semplici cittadini stranieri, per questo popolo? È evidente che misure effettive possano essere adottate solo dalla Cina o, quantomeno, da membri della comunità internazionale, ma noi possiamo e dobbiamo informarci e informare gli altri su questa situazione ancora troppo poco conosciuta e considerata perché geograficamente “lontana”, supportando il lavoro di sensibilizzazione da parte degli Uiguri che oggi risiedono all’estero e non lasciando che queste denunce e testimonianze vengano nel tempo dimenticate.
Inoltre, secondo il think tank Australian Startegic Policy Institute, decine e decine di fabbriche cinesi che riforniscono multinazionali, come Nike, sembrano sfruttare, anche inconsapevolmente, il lavoro forzato di queste minoranze, obbligate con la forza, durante o dopo il periodo di detenzione, ad accettare lavori in altre regioni a salari minimi: anche in questo caso, una maggiore presa di coscienza sull’origine dei prodotti che utilizziamo quotidianamente potrebbe essere un passo in avanti nella lunga strada del popolo uiguro verso il riconoscimento dei propri diritti.
PER APPROFONDIRE
SITOGRAFIA
https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2020-0375_IT.html
https://www.money.it/Cina-400-campi-concentramento-uiguri-cosa-sono-perche-sta-succedendo
https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/cina-la-questione-uigura-nello-xinjiang-23987
https://www.arte.tv/it/videos/087898-000-A/cina-uiguri-un-popolo-in-pericolo/