“Stay human. Africa”. I conflitti africani visti dai media
di Veronica Tedeschi
Quelle in Africa sono guerre ben radicate nel territorio, che vedono il loro percorso tutto concentrato in uno o due Stati. Questa è una caratteristica di molti dei conflitti aperti ancora oggi nel caldo continente. Nel 2019 si calcolavano nel continente africano 23 dispute e crisi non violente (al posto di 25 nel 2018), 45 crisi violente (al posto di 46), 8 guerre limitate (al posto di 9) e 5 guerre al posto di 6. Queste ultime sono: quella della Repubblica Democratica del Congo – terrorismo e ribellione in Ituri e conflitto contro i MaiMai, una milizia etnica-, quella contro i Boko Haram in Nigeria, Camerun, Niger e Ciad e infine l’annoso conflitto in Somalia. I numeri dei conflitti, si può bene vedere, non aumentano o diminuiscono di grandi cifre, rimangono per lo più stabili negli anni, guerre perpetuate e ben radicate. Prendiamo come esempio la guerra nel Sahel, in crisi dall’inizio degli anni Sessanta. Qui le questioni principali ruotano intorno alla questione nomade e al secessionismo tuareg, mai davvero affrontati in radice ma solo in termini di spartizione del potere.
Dalla fine della Guerra Fredda i protagonisti dei conflitti africani hanno lasciato formare nelle convinzioni degli europei esclusivamente guerre su base etnica. Ciò è parso loro più facile piuttosto che affrontare la questione contradittoria della proprietà fondiaria della terra e dell’indissolubile legame “terra-identità” prevalente in ambito rurale. Si preferisce, dunque, usare la logica etnica di “sangue-razza” fissata dal colonizzatore e facilmente decifrabile, piuttosto che quella tradizionale africana, più mobile legata alle dinamiche dei ceti sociali molto difficile da rappresentare.
I conflitti africani acquisiscono la loro dimensione mediatica – e politica – grazie a forme di spettacolarizzazione orchestrate e gestite da fuori. Ciò comporta la loro consacrazione come conflitti internazionali e non oscuri massacri locali. Ma le cose non sono sempre come appaiono. Ad esempio, una vicenda bellica che ricevette una significativa attenzione internazionale, specialmente nel mondo angolofono, fu il raid del 15 aprile 2016 a Gambela, in Etiopia con il massacro di duecento pastori nuer, il rapimento di un centinaio dei loro figli e il furto di oltre duemila capi di bestiame da parte di aggressori appartenenti ad un altro gruppo di pastori, i murle del Sud Sudan. Un attacco molto simile si è svolto più recentemente nel marzo 2020 con oltre mille morti. Si tratta di episodi di un grave conflitto locale, legato a rivalità per la terra e per i pascoli che assume significato solo in quell’area. Al contrario, movimenti ribelli meno noti al grande pubblico come quelli che vediamo in Congo non costituiscono un conflitto locale ma nazionale – l’ambizione è quella di prendere la capitale Brazaville -. Una dinamica mediatica particolare che mette in risalto conflitti locali piuttosto che grandi rivoluzioni nazionali.
Ultimo punto che vorrei trattare è l’inserimento in tali conflitti di elementi diversi non attinenti a quest’ultimo come i traffici illegali e la criminalità organizzata. Una delle formule di sopravvivenza degli Stati africani è legata alla resilienza delle rete criminali, alle quali possono connettersi poteri centrali fragili che non controllano l’intero territorio nazionale. Questa disgregazione delle reti criminali, molto più evidente in Africa piuttosto che in Europa, ha consentito a molti stati di non soccombere a tali dinamiche.
La breve sintesi di questo articolo, che prende spunto dal libro di Mario Giro “Guerre nere”, mette in risalto l’errore dei media internazionali nel fare focus su complicati conflitti africani, nei quali le radici delle dispute risalgono a questioni locali irrisolte da decenni. Un monito per i tanti giornalisti e una riflessioni per i lettori.